Il rapporto fra scacchi e potere è complesso e controverso. Alcuni potenti amano il “nobil giuoco” perché avvertono la sua terribile potenza, altri invece ne sono intimiditi forse per lo stesso motivo. Ci sono potenti che vietano ai propri sudditi di giocare a scacchi, altri invece che ce li obbligano: ecco alcuni casi rappresentativi.
Costretto ad abbandonare l’Iran il 16 gennaio 1979, lo scià Mohammad Rez Pahlavi vide sfumare la sua opera di laicizzazione del paese: il ritorno in patria di Khomeinī dopo un lungo esilio diede anzi il via ad una “repubblica islamica” di stampo oltranzista. Tutti gli aspetti culturali ed artistici dell’Iran vennero tenuti in sospeso in attesa che l’Āyatollāh emettesse una fatwa, un decreto che indicasse come comportarsi in merito: nel 1981 il gioco degli scacchi - accusato di fuorviare le menti e venire utilizzato come gioco d’azzardo - venne considerato harām, illecito.
«Allah non ha creato l’uomo per farlo divertire - ebbe a dire Khomeinī. - Non ci sono giochi nell’islam. Non c’è umorismo nell’islam». Molti giocatori continuarono a praticare il “nobil giuoco” di nascosto, e stando alle dichiarazioni di Mansour Farhang (primo ambasciatore alle Nazioni Unite dell’Iran post-rivoluzionario, che però si dimise con la crisi degli ostaggi nel 1980) migliaia di iraniani sono stati arrestati e fustigati pubblicamente per aver ascoltato musica, giocato a carte o giocato a scacchi.
Questo finché Khomeinī stesso non cominciò a fare concessioni alla “modernità”, e nel settembre del 1988 - otto mesi dopo aver concesso alle TV locali di mandare in onda film occidentali, «a patto che gli spettatori non li guardino con occhi lussuriosi» - considerò alla fine gli scacchi un buon esercizio per la mente. Tolse il bando ma era importante, specificò l’Āyatollāh, che quel gioco non influisse sul regolare svolgimento delle preghiere quotidiane, e soprattutto non venisse usato come gioco d’azzardo.
Non sembra esserci pace per il “nobil giuoco” nella terra che fu l’antica Persia. Il 18 gennaio 2000 le agenzie di stampa hanno battuto la notizia che nella città di Kashan, nell’Iran centrale, il locale Āyatollāh Jafar Saburi ha emesso una fatwai in cui di nuovo si fa divieto di giocare a scacchi. Anche se il divieto riguardava solo quella città, il “Teheran Times” ha criticato la decisione di Saburi, accusandolo di non essersi consultato con le altre autorità religiose. Questo divieto «ha avuto un impatto negativo sulla popolazione di Kashan e la loro vita religiosa» è stato il commento di Ali Hashemi-Tehrani, il portavoce dell’associazione scacchistica locale. Non è chiaro se il divieto persista tuttora, ma di sicuro gli scacchi sono davvero un gioco controverso nell’Iran del XX secolo.
Facciamo un passo indietro e torniamo nell’Afghanistan del 1996. Quando i Talebani trovarono l’affarista di Kabul Haji Shirullah intento a giocare a scacchi con suo fratello, nel proprio ufficio, bruciarono scacchiera e pezzi. «Ci sbatterono in prigione per due giorni - raccontò in seguito Shirullah. - I Talebani credevano che gli scacchi fossero un gioco d’azzardo e che distraessero la gente dalle loro preghiere.»
«La gente comune era abituata a giocare per le strade - spiegò il giovane Qadratullah Andar, che riuscì a divenire campione afghano di scacchi poco prima del “divieto talebano”, - ma già prima dell’avvento dei Talebani si faceva pericoloso, per via della guerra civile. All’inizio provammo a giocare di nascosto, ma i miei amici furono arrestati dal Maroof [polizia religiosa, n.d.r.]. Alcuni di loro erano medici e furono arrestati in ospedale, così decisi che era meglio non giocare affatto.»
Il divieto di giocare a scacchi rimase in vigore fino al 2001, quando i Talebani vennero detronizzati, e solo nel febbraio 2002 si è potuto svolgere a Kabul il primo torneo di scacchi dopo il “bando talebano”, organizzato da Mohammed Akbar Salam (professore di belle arti all’Università di Kabul nonché maestro di scacchi). All’evento si è presentato non solo il citato Shirullah, ma circa 140 giocatori, più di quanto si era preventivato: molti di loro hanno dovuto giocare in terra perché non c’erano tavoli sufficienti. Al momento di comprare più scacchiere per il torneo, Salam e i suoi collaboratori scoprirono che pochi negozi ne avevano, e in più se le facevano pagare salatissime. «Abbiamo dovuto chiedere ai partecipanti al torneo di portarsi le loro scacchiere!»
Viaggiando per alcune ore in auto dall’aeroporto di Volgograd - l’antica Stalingrado - si arriva ad Elista, la capitale della Repubblica di Kalmykia, che alcuni in italiano chiamano Calmucchia. I kalmyki sono considerati discendenti delle orde mongole guidate da Gengis Khan, e sono storicamente dei pastori nomadi di culto buddhista tollerati dall’impero russo solo perché difendevano i confini meridionali. Stalin si convinse invece che i kalmyki simpatizzassero per i nazisti e il 28 dicembre 1943 ne decretò la deportazione in Siberia: quando nel 1957 poté tornare in patria, grazie al disgelo di Kruščev, la popolazione era quasi decimata.
Oltre ad essere l’unico stato buddhista d’Europa, la Kalmykia non ha altre particolarità se non quella di essere il paese più povero della federazione russa, tenuta poi con pugno di ferro dall’eccentrico presidente Kirsan Nikolaevič Iljumžinov, tanto fervente buddhista quanto convinto di aver viaggiato su un’astronave aliena: la particolarità del suo carattere non gli ha impedito di trasformare il suo paese in qualcosa di molto simile ad una dittatura, senza che il Cremlino si sia mai scomodato più di tanto.
Iljumžinov è soprattutto un grande appassionato di scacchi, nonché organizzatore di eventi mondiali di questo gioco. «Gestisce i tornei come gestisce il suo paese: in modo autoritario» si è espresso su di lui Garry Kasparov sul “Wall Street Journal”. Fra i due non corre buon sangue, sin da quel 1993 quando Kasparov si staccò dalla FIDE (Federazione Internazionale degli Scacchi) per creare la propria PCA (Professional Chess Association), e a capo della FIDE si insediò - dal 1995 - Iljumžinov: grazie agli ingenti fondi a disposizione, il presidente della Kalmykia ha risollevato le sorti dell’associazione e organizzato eventi di rilevanza mondiale nei successivi anni.
Quello che nel suo paese manca in democrazia viene bilanciato dalla passione per gli scacchi. Con una spesa pari a cento milioni di dollari, nel 1998 Iljumžinov ha istituito ad Elista un complesso chiamato Chess City: un albergo, un museo, una piscina e tanto altro, tutto dal design rigorosamente dedicato ai pezzi del gioco.
«Io credo che gli scacchi vengano da Dio - ha raccontato il presidente al giornalista Ed Vulliany. - Da Dio o dagli esseri che viaggiano sugli UFO. Ed io lo so! Mi hanno preso a bordo mentre ero in viaggio di lavoro a Mosca, nel 1997, e portato su una stella lontana. È perfettamente normale: l’anno scorso ho visitato l’America e scoperto che lì ci sono statistiche ufficiali che parlano di 4 mila contatti alieni ogni anno!»
«La scacchiera ha 64 caselle - conclude Iljumžinov, - e le nostre cellule sono composte da 64 elementi: tutto questo dimostra che gli scacchi discendono da Dio, o dagli UFO.»
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