Dallas (Texas), venerdì, 22 novembre 1963, tarda mattinata. Si consuma un incubo destinato a stamparsi nella memoria collettiva contemporanea non grazie alle immagini dei grandi mass-media ma al filmato di un dilettante, Abraham Zapruder. Il corteo presidenziale, risalito da Houston Street in Dealey Plaza, svolta da questa in Elm Street. All’improvviso degli spari, non si saprà mai quanti con esattezza. Kennedy china il capo in avanti, poi la parte posteriore della testa gli esplode. Sua moglie Jacqueline si precipita verso il cofano posteriore, forse nel pietoso tentativo di riafferrare quei resti del marito. Un agente del servizio segreto balza là sopra, battendo forsennatamente sulla lamiera. Il corteo accelera verso il triplo sottopassaggio sotto i binari della ferrovia e di là verso il Parkland Hospital, dove i medici tenteranno invano di riportare in vita il presidente nella Sala di Rianimazione n. 1. Nella sede centrale della CIA, a Langley, in Virginia, Walter Elder, un collaboratore del Direttore John McCone, spalanca la porta e grida: «Hanno sparato a Kennedy.» A Mosca, Vladimir Abrosickin invia all’ambasciatore statunitense Foy Kohler una lunga poesia che a un certo punto recita: Le ali dell’aquila sono si sono ripiegate.
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