Ambientato nella Cina pre-rivoluzionaria, Kung Fusion di Stephen Chow narra la storia del ladruncolo Sing (Stephen Chow), che sogna di entrare a far parte della famigerata Banda delle Asce, cattivissimi ed elegantissimi mafiosi locali che tiranneggiano sulla città. Quando, dopo aver cercato invano di estorcere del denaro dagli apparentemente pacifici abitanti di un quartiere noto come “Vicolo dei porci”, Sing s’imbatterà nella padrona del quartiere (Yuen Qiu), vera e propria furia indomabile, la Banda delle Asce penserà d’intervenire per porre fine all’indipendenza del quartiere. Ma inaspettatamente sarà il kung fu, e non le asce, a farla da padrone: nel vicolo si nascondono infatti non solo tre piccoli maestri, in grado di sgomitare le Asce al primo scontro, ma perfino due tra i più grandi esperti viventi, che sapranno difendere la comunità dai ripetuti attacchi delle Asce, non senza l’intervento provvidenziale e miracoloso di Sing, che riscoprirà le proprie doti di grande maestro, predette da un vagabondo quando era piccolo.
La trama “noir” della gang mafiosa che semina morte e terrore nella città diventa subito un pretesto per rivelare una vera e propria mescolanza “postmoderna” dei generi, com’è tipico del cinema di Hong Kong. In questo caso, trattandosi della star comica Chow - già attore in numerosi film altrui e da qualche tempo anche regista, noto in Occidente soprattutto per la sua opera precedente, Shaolin Soccer - l’elemento prevalente è una comicità assurda e nonsense che tende a farsi burla di qualsiasi cosa, morte compresa (che dire del maestro che, in fin di vita canta “I can get no satisfaction” dei Rolling Stones, o dell’elegante e scansonata danza a suon di asce nei titoli di testa?), oltre ovviamente alla parte sui combattimenti, cha hanno una sicura presa sul pubblico di qualsiasi età e nazionalità. Una trovata ingegnosa in tal senso, ma forse sviluppata troppo oltre le premesse con un eccessivo uso del digitale, è quella dell’impiego delle corde di liuto come colpi da sferrare all’avversario, anche se le sequenze di kung fu più avvincenti sono quelle che vedono protagonista Chow stesso, che si riserva un “mistico” attacco finale con la complicità del Buddha: non male per un ex ladruncolo buono a nulla!
Martial arts director (tradizionalmente figura di primo piano al pari del regista nel cinema di Hong Kong) è Yuen Woo-Ping, coreografo tra l’altro delle leggendarie scene di combattimento tra Jet Li e i suoi avversari nel secondo episodio di Once Upon a Time in China diretto da Tsui Hark, nonché di quelle di Matrix dei fratelli Wachowski. Da segnalare inoltre la presenza di Yuen Wah, autentica leggenda del cinema di Hong Kong, villain per antonomasia in numerosi combattimenti filmici (tra cui ricordiamo la memorabile opera a più mani Swordsman) e qui ridimensionato nell’insolito ruolo di un marito sottomesso prima e di un maestro che lotta dalla parte dei buoni dopo. Nel complesso, forse non sarà il film migliore di e con Stephen Chow (i due Chinese Odyssey di Jeff Lau o God of Cookery dello stesso Chow per esempio offrono molta più originalità), ma il divertimento è assicurato, e lo sberleffo a qualsiasi tipo di logica anche.
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