Stiamo parlando della particolarità del termine inglese nightmare, derivante dall’antico sassone: sintomo di una patologia del sonno per i dotti, demone notturno per il popolo.
Abbiamo chiuso la precedente puntata affermando che almeno un traduttore di William Shakespeare ha saputo analizzare a fondo la lingua italiana e ha saputo trovare la vera traduzione del nightmare, termine che il celebre drammaturgo ha inserito nel suo Re Lear (1606 circa), citando una filastrocca dei suoi tempi.
È il momento di svelare il nome del traduttore in questione: si tratta di Cino Chiarini, che tradusse il Re Lear per Sansoni nel 1910. Il brano in questione, «He met the Night-Mare / and her nine foals», suona dunque così: «Incontrò la fantasima e le sue nove scolte».
Chiarini deve aver fatto questo ragionamento: se nell’antica letteratura inglese era usanza citare filastrocche popolane, non può darsi che in Italia sia possibile trovare esempi similari e coevi, così da scoprire che termini erano usati all’epoca? Quando Geoffrey Chaucer citava le filastrocche contro i demoni maligni, chiamandoli «nyghtes mare», cosa accadeva nel nostro Paese? Bastò risalire ad uno dei padri della lingua italiana, Giovanni Boccaccio, per trovare la chiave giusta. Anche se una chiave oggi quasi dimenticata.
Intorno al 1350 il Decamerone boccaccesco conquistò grande fama perché usava l’italiano volgare come lingua di scrittura, al posto del latino, e nella novella prima (settima giornata) troviamo bella pronta una filastrocca scaramantica contro i demoni della notte: «Fantasima, fantasima che di notte vai, a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n’andrai». È un perfetto corrispettivo italiano del night-spell citato tanto dal coevo Chaucer che poi nel Seicento da Shakespeare.
Per dovere di cronaca va sottolineato che non è sicuro che Boccaccio abbia citato una vera filastrocca della sua epoca, o se invece abbia parodiato lo stile di queste scaramanzie popolane, ma rimane il fatto che nell’italiano del Trecento non si usava l’incubus latino, bensì il termine “fantasima”. Perché prima che entrasse nell’uso comune la parola “incubo”, per il popolo i brutti sogni erano immagini che apparivano: erano appunto fantasmi, termine che deriva dal greco φάντασμα, fàntasma, dal verbo fantàzo, che vuol dire proprio “apparire”. Che sia un brutto sogno o un’ispirazione poetica, quando nella nostra mente appare un’immagine, chiamarla fantasma o fantasia è la stessa cosa.
Già nel Cinquecento il poeta Francesco Berni si chiedeva perché Boccaccio utilizzasse la fantasima e Francesco Petrarca fantasma («Mai nocturno fantasma / d’error non fu sì pien, com’ei vèr’ noi», Il Canzoniere 360, vv. 131-132), rimbrottando che la Crusca sbagliava nell’identificare nella prima forma la versione femminile della seconda. Dal Settecento il Dizionario dell’Accademia della Crusca si è aggiornato e non fa distinzione fra i due termini, trattandoli come sinonimi, ma ancora nel Seicento era attestato un uso distinto: il fantasma (maschile) è usato dai poeti, la fantasima (femminile) dai prosatori. Una differenza fondamentale, perché questa contrapposizione maschio-femmina è identica al sassone nachtmårt, la cui versione femminile nichtmarë è entrata nel linguaggio delle filastrocche scaramantiche.
Per l’altro padre della lingua italiana, Dante Alighieri, gli incubi sono «ombre oranti» (Purgatorio, Canto XI, v. 27). Più avanti, nella Gerusalemme liberata (1575) di Torquato Tasso, troviamo un «fantasma importuno ai viandanti, / Rompi i brevi lor sonni» (canto X, IX-70). Non si sta parlando di un vero fantasma, avvertono i commentatori ottocenteschi, bensì di un «qualche spirito diabolico». Cioè quello che noi oggi chiamiamo incubo.
È il momento di ricapitolare.
Il latino incubus e il rispettivo italiano incubo è conosciuto ed usato sin dalla nascita della lingua, ma in manuali e testi specialistici: opere a cui il popolo non aveva accesso, e che poeti come Petrarca e Boccaccio, fedeli alla lingua parlata, non usano mai. Il popolo creò una propria parola per identificare il temuto demone notturno. «Entrò dove io dormiva sanza dormire e pianamente mi si pone allato. Io, nel pormi la mano sul petto, entrai in quella frenesia che si pate quando talvolta si dorme col corpo in suso: che pare che una cosa greve greve ti si ponga a sedere nel core, che non ti lascia né parlar né muovere. La fantasima è cotesta». La descrizione di Pietro Aretino, nel Ragionamento della Nanna e della Antonia (1534), testimonia l’uso quasi ufficiale che il popolo faceva di un termine ben più antico, visto che già nel 1256 Aldobrandino da Siena scrive che dormire supino è “malvagio” in quanto genera malattie come la fantasima «che la fisica appella in Latino incubus» (da Le régime du corps o Libro della sanità del corpo).
Per la “fisica”, l’incubo è un demone che «prima succubo all’huomo piglia il seme e poi facendosi incubo alla donna lo trasfonde» (Compendio dell’arte esorcistica di Girolamo Menghi, 1586). (Questa connotazione sessuale è stata ripresa da Ray Russell nel 1976 per il romanzo Incubus, da cui il film omonimo del 1982: una storia in cui il sogno si fonde con la violenza sessuale demoniaca.)
Per il popolo, ciò che noi oggi chiamiamo incubo ha nome fantasima, e chiude il discorso Carlo Malaspina nel 1856: «Incubo è voce de’ medici. Fantasima è voce generata dalla superstizione».
Cino Chiarini per la sua traduzione è riuscito a cogliere il vero nome italiano del nightmare, nell’accezione popolana citata da Shakespeare, e non in quella “scientifica” dell’incubus latino.
Possibile che nell’Ottocento nessun traduttore italiano abbia colto la frase di Malaspina sulla distinzione fra incubo e fantasima? I traduttori del Re Lear non sembrano averlo fatto, ma in questo periodo di grandi traduzioni di opere importanti qualcun altro ha dovuto percorrere lo stesso viaggio del Chiarini. Un traduttore italiano che si è trovato di fronte una sfida ardua: non un incubo ma ben tre! Non solo la cavalla della notte, ma anche i suoi puledri!
Chi è questo traduttore e come ha tradotto il triplice incubo lo vedremo nella prossima puntata.
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