Esiste una sanguinante ferita da sottosviluppo in pieno nord del mondo. Si chiama Irlanda. Sull’isola di smeraldo si combatte una guerra secolare, che promette di prolungarsi nel nuovo ordine mondiale. La questione irlandese aggiunge ombre fosche a un’era in cui la pace forse si riduce solo alla risoluzione del contenzioso USA-ex URSS, che non ricompone i conflitti locali, anzi li rinfocola, non escludendo il pericolo dell’escalation nucleare, viste le velleità di nazioni che posseggono o stanno per arrivare all’arma finale.
Anche in Irlanda si agitano gli stessi inquietanti spettri del trapasso di millennio, sbucati da uno di quei ripiegamenti della Storia su se stessa: lotte religiose, etnie, autodeterminazione dei popoli. È caduto il muro di Berlino, la Germania si è riunificata da oltre venti anni, ma l’Irlanda resta divisa. Perché, a differenza dei tedeschi, lì le divisioni sono all’interno stesso della coscienza nazionale.
Per quanto la passione repubblicana possa ostinarsi a prendersela con i “dannati inglesi”, il problema è sull’isola, non sulla Mainland, come gli irlandesi chiamano il territorio britannico. Le due comunità dell’Ulster, protestante e cattolica, si confrontano da sempre senza risultati. La riunificazione con l’Eire, la libera Repubblica d’Irlanda, potrebbe persino peggiorare lo stato delle cose. Infatti le posizioni in campo sono contrastanti fino ad essere inconciliabili. Per gli oltranzisti, Dublino ha tradito accettando l’Home Rule del 1920, con cui il Primo Ministro Lloyd George concedeva l’indipendenza alle 26 contee del sud. Per i protestanti, l’Ulster deve continuare a far parte del Regno Unito.
Eppure, non tutte le posizioni sono riconducibili a questo schema sommario.
Immagini dell’Irlanda, oggi. Da un lato l’eleganza di Grafton Street, a Dublino, il centro commerciale, tappezzato di vetrine che espongono il meglio della produzione isolana: maglioni da marinaio di Aran, camicie di Kinsale, pizzi di Limerick e cristalli di Waterford. Dall’altro la desolazione dei ghetti cattolici di Londonderry e Belfast, nell’Ulster. E più ancora, un altro di quei reperti elettronici prodotti dall’era della televisione: uno speaker che esplode in diretta davanti alla telecamera, nel documentario di Marcel Ophuls A Sense of Loss, del 1972.
Dinanzi a questi lancinanti contrasti si perdono anche i riferimenti culturali. Si appanna la memoria del genio irlandese di Oscar Wilde, William Butler Yeats, George Bernard Shaw e James Joyce, per citare solo i nomi più ovvi, ai quali i giovani aggiungeranno con ragione quello del popolare gruppo degli U2, il cui mito, per ironia della Storia, ha soppiantato quello degli inglesi Beatles.
Ma parlare dell’Irlanda richiede l’abbandono di quel romanticismo che porta a simpatizzare per i perdenti. Di fronte alla recrudescenza periodica e sanguinosa del terrorismo a suon di esplosioni e raffiche di Armalite (il micidiale fucile mitragliatore prediletto dall’IRA) c’è bisogno di chiarezza. Come soltanto può venire dall’esame delle ragioni di tutte le parti in causa.
Nell’Ottocento, l’irredentismo irlandese si trascinò all’estero, in continente americano, a seguito dell’emigrazione massiccia che si ebbe in seguito alla carestia del ’46 e del ’48. Nel 1858, fu fondata negli Stati Uniti la Fratellanza Feniana. Il nome derivava dal fian, la torma di guerrieri che seguiva il leggendario re irlandese Finn MacCool.
La mattina del 2 giugno 1866 vi fu una curiosa ma nondimeno cruenta battaglia combattuta in territorio canadese, a Ridgeway. Un gruppo pittoresco di uomini armati avanzò sventolando una bandiera verde, recante l’immagine di un’arpa irlandese e la sigla IRA, che faceva così la sua prima comparsa. Dei giovani studenti intervennero volontariamente per difendere il territorio da quegli strani invasori. I canadesi persero venti uomini ed ebbero quaranta feriti. Un’episodio tipicamente rappresentativo dello spirito d’improvvisazione all’insegna del quale si svolsero gran parte delle imprese irredentiste irlandesi. Ne furono protagonisti alcuni componenti della Fratellanza Feniana, intenzionati a includere l’attacco ai canadesi in un più vasto quanto fantomatica piano di insurrezione anti-britannica. L’uomo che li guidava, il colonnello John Roberts, dichiarò solennemente che prima del finire dell’estate «la verde bandiera sventolerà indipendentemente nella brezza della libertà e noi avremo una base di operazioni dalla quale potremo non solo emancipare l’Irlanda ma annientare l’Inghilterra.» In realtà, il movimento ebbe vita breve.
Le tappe determinanti del tortuoso cammino percorso dall’irredentismo irlandese restano comunque tre: il riconoscimento dell’indipendenza per l’Eire, la fondazione del Sinn Feinn e il ruolo dell’IRA nel successivo processo di guerra civile permanente.
All’inizio del secolo, si avvertiva l’esigenza di un movimento politico che esprimesse in forma compiuta le aspirazioni nazionali. Nel 1905 Arthur Griffith, un tipografo che aveva vissuto in Sudafrica, fondò il Sinn Feinn, che in gaelico significa “noi da soli”, intendendo l’istanza indipendentista. Nell’aria si agitava già l’Home Rule, che avrebbe concesso all’isola lo stato di sovranità nazionale. Ma nel Nord, i protestanti risposero associandosi nei Volontari dell’Ulster, con il fine esattamente opposto. In circa un decennio di contrasti, maturarono le condizioni per la Sollevazione di Pasqua del 1916. Durante la sommossa, un gruppo di nazionalisti si asserragliò nell’ufficio postale di Dublino, sotto la guida di Patrick Pearse, un maestro di scuola dalle aspirazioni militariste che firmò i suoi comunicati come “Comandante Generale dell’Esercito Repubblicano Irlandese (Irish Republican Army)”. La sigla dell’IRA tornava a fare la sua comparsa cinquant’anni dopo la battaglia di Ridgeway.
Così, quello che pareva l’ultimo atto di un ennesima vicenda di unità nazionale, come lo era stato il Risorgimento per l’Italia, era solo l’inizio di una sanguinosa ed irrisolta questione contemporanea.
(Continua)
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