Si assopì di nuovo, come ormai faceva da giorni. Nel sonno agitato e convulso, lembi di immagini stracciate affioravano nel substrato dei ricordi, come fotografie accartocciate dagli orli bruciati. Dormendo continuava a interrogare se stessa. Una ruota, una ruota, dove, prima di quel momento, aveva sentito una ruota cigolare in quel modo? Doveva sforzarsi di ricordare. Anche se non riusciva a indovinarne il motivo, sentiva che quel dettaglio che ancora le sfuggiva era determinante. Dietro i suoi bulbi oculari presero a scorrere delle scene, accelerate come in un vecchio film muto. Qualcuno la stava coprendo mentre giaceva sull’asfalto bagnato, voci che parlavano, urla in sottofondo, mani impacciate che le sollevavano il capo per adagiarlo su qualcosa di morbido, un ombrello che la riparava dalla pioggia mentre lontano si sentiva il grido disperato della sirena di un’ambulanza. E sotto, sotto a tutto, quella ruota che continuava a girare... implacabile... Poi sì, ecco, la targa di quella moto, orribilmente contorta, che giaceva al suolo a pochi metri da lei come un animale ferito, con una ruota in aria che ancora girava lenta, animata da una forza di inerzia che sembrava non avere fine.

Il flash terminò di colpo come era cominciato, ma lei non si svegliò. Al mattino dormiva ancora, persa in sogni confusi che non riusciva a combinare tra loro. A volte sognava di correre a piedi nudi sull’asfalto, in preda all’angoscia, inseguendo Ebe, e la sua corsa finiva contro la forcella di una moto di grossa cilindrata lanciata a tutta velocità. Altre, invece, acquietata forse dalla consapevolezza di aver finalmente iniziato a ricordare, i sogni si facevano più nitidi e le pareva di scorrazzare sull’erba, mentre sentiva il latrare dei cani inseguirla da vicino, il cuore in gola, colmo di paura. Poi stramazzava in avanti, squassata da un colpo ricevuto alla schiena, il cervello in fiamme, migliaia di fitte di dolore che le percuotevano la pelle. Nella confusione della mente ancora assopita tra veglia e sonno, pensava di vivere come una sensazione di sdoppiamento. Ora inseguiva la sua gatta nel corridoio felpato dell'hotel, poi una porta si apriva e lei vedeva se stessa appesa per i polsi a una catena, la schiena solcata da rivoli di sangue, i seni martoriati da bizzarre incisioni fatte con un bisturi, il viso contuso e gli occhi gonfi come quelli di un pugile. C’era qualcuno che la picchiava, con scienza e metodo, usando un tirapugni di acciaio sul volto, senza pietà fino a che la carne si spaccava e appariva il nitido fulgore delle ossa, poi usava la frusta sulla schiena, con freddezza e rigore, contando i colpi in tedesco, la lingua che lei amava tanto. Infine la faceva voltare dondolando la catena che le serrava i polsi, e le incideva i seni con il bisturi disegnando in profondità quei bizzarri simboli runici che le sembrava ora di vedere dal di fuori, come in un incubo. Mosse una mano cautamente cercando di toccarsi le cicatrici. L’infermiera fece cadere il vassoio per la sorpresa e si precipitò verso l’interfono chiamando a gran voce il medico di guardia.

Il rumore fu intollerabile e il sonno la riprese di nuovo con sé, fino a quando, mischiato al rumore di sottofondo della ruota, il suono di una voce morbida si fece strada dentro di lei, ripetendo le parole come in una sorta di eco senza fine. Era il suo nome quello che sentiva e la voce era quella vellutata e un po’ roca di Salvo. Lui detestava che lo si chiamasse Salvo, questo lo ricordava. Ma era il suo nome, Daria, quello che lui chiamava. O stava cercando ancora Cloe? Non riusciva a capire. Stanca di respirare, voleva aprire gli occhi, ma non osava. Le tornava alla mente quello che aveva subito, in quella stanza piena di strumenti di tortura e di acciaio, non voleva sapere, non voleva vedere quello che era rimasto del suo corpo. Tenne gli occhi serrati, sperando che non le riuscisse più di aprirli. Cosa le avevano fatto? La testa le pesava, e le immagini della moto che le veniva addosso sull’asfalto bagnato si frapponevano nella mente, mischiate e confuse come un mazzo di carte, con quelle della stanza del male, quella a cui non osava dare un nome.

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