In quel momento i beeper dei due ronzarono simultaneamente, gli uomini della sorveglianza avevano un problema.
– Capo, c’è qui un gatto nero che miagola come un ossesso e gratta contro la porta. Che dobbiamo fare?
– Quale gatto? – chiese Domenico esterrefatto.
– Ha una gatta nera che si chiama Ebe, se la porta appresso dappertutto – spiegò Sal, escludendo gli uomini di sorveglianza dalla trasmissione.
– Ah, e secondo te che stanno facendo ora là dentro? Gemiti e sospiri?
Sal, che per tutto il tempo era rimasto collegato in auricolare con la stanza di Daria, rispose affermativamente.
– Smessi da un po’.
– Che si fa allora?
– Diciamo agli uomini di bussare, così con la scusa della gatta possono controllare se è tutto a posto.
– Certo che è tutto a posto, non la rapirà certo in pieno giorno in un albergo pieno di telecamere.
– Naturalmente no, ma se con la scusa della gatta riescono a far uscire quel tipo dal letto forse mi sentirò meglio.
* * *
Tre mesi dopo Sal stava ancora maledicendo se stesso. Lei se ne era andata. Un bel giorno aveva fatto armi e bagagli, aveva detto di aver trovato un incarico migliore ed era partita, così su due piedi. Lasciando lo staff del Cancelliere per destinazione ignota. Domenico gli aveva assicurato che tra lei e il reclutatore non c’era stato più nessun contatto, ma ciò nonostante non si sentiva affatto tranquillo. Non avere notizie era uno stillicidio continuo mentre i suoi sogni si popolavano di visioni raccapriccianti, donne che correvano nude, a piedi scalzi, in sontuosi giardini all’inglese, tra siepi e sempreverdi, tra aiuole e bordure fiorite, inseguite da mute di cani con le fauci grondanti di sangue, colpite da proiettili di vernice rossa alla schiena, stordite dalla violenza dell’urto, trascinate in camere da letto e sottoposte a sevizie, per essere poi mutilate, uccise e abbandonate, come bambole rotte, su cumuli di immondizia ai lati di una strada deserta. Scorreva freneticamente i giornali, telefonava a tutti gli obitori, interrogava gli amici e i colleghi di un tempo, nel tentativo di sapere se quel losco traffico clandestino di carne umana continuava ancora. Daria intanto era pericolosamente vicina, la multinazionale per cui ora lavorava aveva organizzato una convention proprio a Las Vegas, al sontuoso Caesars Palace. Tre mesi, ragionava Sal, era il lasso di tempo giusto per far figurare le foto di Daria su un catalogo, in attesa che venisse scelta, mentre quel prestigioso incarico, piovuto dal cielo chissà come, la teneva occupata. Ed ecco che, proprio adesso, la sua presenza era richiesta a Las Vegas per quella dannata convention, così maledettamente opportuna. Sal decise di recarsi sul posto. Che Daria lo odiasse pure, se voleva, ma lui voleva proteggerla a qualsiasi costo. Organizzò la sua sostituzione e partì, riuscendo a sbarcare al Caesars un giorno prima dell’apertura della convention. Accaparrarsi una camera sullo stesso piano fu quasi un’impresa, ma Las Vegas era una città aperta e corruttibile, un luogo fatato in cui con le mance adeguate si poteva ottenere qualsiasi cosa. Questa volta, dovendo fare a meno di telecamere, microfoni e sistemi di sorveglianza, non aveva altra scelta che vigilare costantemente, notte e giorno, per evitare che Daria venisse rapita sotto i suoi occhi. Niente poteva convincerlo del contrario, il momento era arrivato, qualcuno era in cerca di una rossa conturbante con la pelle color latte, e si era soffermato proprio sull’immagine di Daria, in guepiere e frustino, sbandierata su qualche fantomatico catalogo. La convention a Las Vegas non era altro che una trappola, preparata con mesi e mesi di anticipo, che solo ora stava per scattare. Chi si sarebbe accorto della sua scomparsa, così lontano da casa?
* * *
Le piastrelle verdi del linoleum si fusero a un tratto con i pannelli bianchi del soffitto quando tutta la stanza prese a girare vorticosamente. Ogni cosa si anteponeva e si ribaltava in un gioco senza senso. Lei chiuse gli occhi serrandoli, nel tentativo di interrompere quella girandola di immagini. Eppure la stanza continuò a rotearle attorno, anche dietro al buio delle palpebre. Riuscì a fermare quel senso di ondeggiamento solo concentrando il pensiero su un rumore cigolante che proveniva dal corridoio, fiocamente illuminato dai neon. Un carrello, pensò. Un carrello con una ruota incastrata, ecco cosa produce questo rumore. Il solo fatto di avere identificato la fonte la fece sentire subito meglio, come se avesse riportato una piccola vittoria, contro chi o contro cosa non sapeva, ma si sentiva soddisfatta di se stessa. Tuttavia quel rumore cigolante le riportava alla memoria qualche brandello confuso di ricordo. C’era un dettaglio fondamentale, lo sapeva, che continuava a sfuggirle.
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