L’impianto fonico funzionava a dovere, poteva sentire ogni singolo fruscio nella camera del Cancelliere e in quella di Daria. Spiare era doloroso, certo, a volte imbarazzante, ma faceva parte del suo lavoro. Con il suono rassicurante in sottofondo del ritmico respiro della persona che doveva proteggere, Sal si concentrò sui rumori che provenivano dall’altra stanza. Ansimi e gemiti rochi si alternavano alla musica metallica dei Korn che però non riusciva ad attenuare gli echi di quel piacere che lui ben conosceva e di cui ora avrebbe dovuto imparare a fare a meno. Quanto avrebbe voluto essere là, adesso. Quanto avrebbe voluto non aver mai cominciato quella storia. Ma era stato più forte di lui. Daria, con i suoi vestitini di pelle e le scarpe vertiginose, con quell'abbigliamento sfrontato, i bustier, le stringhe, i bracciali di cuoio e quella pelle bianca come il latte, la chioma rossa così aggressiva, con una frangetta tagliata dritta come un’accetta. Quel suo accento tedesco così duro, quando nell’intimità si trasformava e lasciava libero sfogo alla passione. Una laurea in lingue appena conseguita, Daria veniva da Milano come lui, per mesi si erano frequentati assiduamente, tra locali dark e polverose cantine dove si esibivano gruppi metal d’assalto, tra la cortina di fumo delle sue mille sigarette e quel suo vezzo di arrotolarsi una ciocca di capelli rossi tra le dita mentre parlava, lui si era perdutamente innamorato, e le aveva procurato quell’incarico. Per lei il primo lavoro importante, come interprete personale del neo Cancelliere, per lui l’inizio della fine. Da allora tutto era impercettibilmente cambiato, e le sue porte si erano chiuse. Perso in quei ricordi impiegò più di un secondo per riacquisire lucidità, quando il beeper del cerca persone segnalò che il suo vice lo stava cercando. Senza nemmeno alzarsi dalla dormeuse che si era fatto collocare in camera, rispose con il tono impostato e neutro che gli era abituale.
– Sì, Tommaso... cosa c’è?
La voce dell’altro risuonò nell’auricolare senza fili che portava sempre dietro l’orecchio.
– C’è qui una nostra vecchia conoscenza che ha chiesto di vederti. Ci siamo già fatti una bella chiacchierata ma pare che abbia qualcosa di importante da riferire solo a te.
Sal Damasco arricciò il naso, e perplesso cominciò a sfiorarsi col palmo della mano la lunga cicatrice che dal mento gli risaliva verso lo zigomo, una vecchia abitudine che lo aiutava sempre a riflettere. Aveva già un nome in mente quando autorizzò il suo vice a far salire il visitatore.
Cinquantacinque anni suonati, Domenico Costa, rosso di pelo e biondo di capelli, aveva una stazza da sollevatore di pesi, delle mani grosse come salsicce e un aspetto imponente che faceva letteralmente a cazzotti con la sua aria da bambinone troppo cresciuto. Mentre si rasava con una sola mano, Sal aspettava di inquadrare il visitatore nell’ovale dello specchio del bagno, che gli rimandava perfettamente la porta lasciata aperta e parte del corridoio. Quando vide di chi si trattava, un sorriso appena accennato gli attraversò la faccia, subito ricomposto in un ghigno mezzo storto per facilitare la rasatura.
Come suo solito fu l’altro a prenderlo di petto per primo.
– Salvo Damasco, ma chi se lo sarebbe aspettato? Che diamine ci stai facendo a Roma? E come mai nessuno sa che siete alloggiati qui? – Domenico era fermo sulla soglia e lo stava squadrando attraverso lo specchio, come a volerlo misurare.
– Tanto per cominciare, entra e chiudi la porta, se non vuoi che tutto il mondo sappia cos’è che devi dirmi. Non credo proprio che tu sia passato di qui per caso.
– In effetti, no. Ma sono curioso lo stesso… come mai questa violazione del protocollo? I dispacci dicevano che avreste alloggiato a Villa Albania.
Solo quando ebbe terminato di radersi, Sal si girò verso l’amico. Alto, squadrato, grosso quanto un armadio, portava con una certa disinvoltura una stazza di cento chili distribuita per quasi due metri di altezza. Gli abiti italiani fatti su misura contenevano a stento la muscolatura sempre tesa, e il collo taurino sembrava trattenuto a malapena dal colletto di pura seta. Inappuntabile come sempre, Domenico si lasciò scivolare sulla dormeuse appena lasciata libera da Sal, trovandola ancora tiepida. Allora un sorriso sardonico gli illuminò gli occhi dorati, di un marrone chiaro, accesi da migliaia di pagliuzze dorate.
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