Armando aveva attrezzato il suo camion nuovo da tre giorni e non lo aveva più spostato dal cantiere, ma era venerdì, l’indomani sarebbe stato giorno di riposo e aveva preferito portarselo a casa, meglio nel cortile della cascina che non sulla piazzola dell’Aurelia, accanto alla palazzina in ristrutturazione, specialmente durante il fine settimana, con tutto il casino di turisti che sarebbe arrivato di lì a poche ore.

Guidava a velocità moderata, non soltanto perché la strada di casa era piena di curve e stretta come un budello, ma proprio perché non aveva fretta. Era sereno, quell’ultimo lavoro lo metteva al riparo dai debiti e forse lo avrebbe spinto ad assumere un altro muratore e questo era bene, voleva dire che la sua piccola impresa edile stava andando avanti. Sapeva che avrebbe trovato sua moglie spaparanzata sul dondolo nel minuscolo giardino, già sentiva le sue parole, sempre le stesse da qualche tempo: “Oh Armando, che caldo, ho le caviglie che non me le sento più. Speriamo che arrivi presto il momento!”. Lui l’abbracciava e lei si lasciava abbracciare, poi armeggiando un po’ si tirava su dal dondolo e l’accompagnava in cucina, dove lui apriva una lattina di birra e cominciavano a raccontarsi la loro giornata.

Quella sera aveva mangiato una pizza con i ragazzi, giù vicino al porto, ma quando le aveva telefonato lei non aveva brontolato, forse ne aveva approfittato per riposare mezz’ora di più. Certo che adesso il peso del bambino si faceva sentire. Ad agosto avrebbe partorito; anche lui era impaziente e nello stesso tempo pieno di una paura che i corsi pre-parto non avevano dissolto.

Perso nei suoi pensieri, ma non distratto dalla guida, compì l’ultima curva che lo separava dal bivio che portava alla manciata di case dove abitava, esattamente un istante prima che la Ferrari esplodesse. Il suo cervello registrò ogni evento, prevedendo l’istante successivo, come se avesse già visto centinaia di volte quella scena, e forse era vero, forse l’aveva davvero vista, nei polizieschi americani. La distanza tra il suo mezzo ed il luogo dell’esplosione fu sufficiente a garantire la sua incolumità e quella del camion, ma non quella della sua mente. Rimase a fissare quel rogo le cui fiamme si attorcigliavano in volute rabbiose, seguendo i refoli della brezza notturna. Non sentiva niente, perché aveva guidato fin lassù con i finestrini completamente abbassati per gustarsi i profumi della campagna notturna: questo aveva permesso all’onda d’urto di continuare la sua corsa senza mandare in frantumi il parabrezza, ma le sue orecchie erano fuori uso. Il motore ronfava ancora acceso, con un gesto completamen te inconsapevole aveva messo in folle e tirato il freno a mano, e se ne stava lì, a guardare, incapace di fare altro, completamente ignaro delle due auto che si erano accodate ed i cui occupanti erano scesi a guardare quel macello: una portiera, che era volata via roteando, permetteva la vista dell’interno dell’abitacolo, dove per brevi tratti appariva una vaga sagoma, un mucchio di stracci ardenti, immerso nel fuoco, come se fosse stato dentro ad un bruciatore. Anche l’ippocastano s’era incendiato, una torcia immensa che sparava ceneri incandescenti verso il cielo. Nessuno a Moglio aveva mai visto un’esplosione simile, nemmeno in tempo di guerra.

Questa però, è una storia vecchia.

(Giugno 1996)

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