Furiosa sarabanda noir in salsa latinoamericana con strizzate d’occhio complici (il titolo deriva da una frase di Sepúlveda che è citato a p. 42 assieme ad altri scrittori – persino Salgari – e che è anche il prefatore del romanzo) e vicende al limite del grottesco; ma, al tempo stesso, impietosa analisi dei mali che affliggono la società colombiana.
Nel romanzo sono presenti varie e apparentemente divergenti traiettorie esistenziali che però finiscono per incrociarsi e diventare una cosa sola nell’amaro e assai poco consolatorio finale.
Innanzi tutto c’è il capitano di polizia Aristófanes Moya, obeso, amante dei dolci, che collabora col giornalista protagonista della vicenda facendogli fare spesso indagini al posto suo. Decide poi di sottoporsi a una dieta frequentando una setta religiosa e per questo prepara una specie di memoriale (che ricorda alla lontana quello di Zeno) della sua vita e delle sue inclinazioni al dolce che il lettore legge alternate alla vicenda principale. La sua infanzia tra mamma e zia, gli scherzi dei coetanei per la sua grassezza, la decisione di entrare in polizia, i rari tentativi di smettere di mangiare leccornie varie, la decisione finale di lasciare la polizia e di entrare nel servizio di sicurezza del dottor Vargas Vicuña che, come vedremo, ha un importante ruolo in tutta la vicenda.
C’è poi il giornalista Víctor Silanpa che lavora a “El Observador”, anche se non disdegna di arrotondare lo stipendio fotografando coppiette illegali e vendendo le foto al coniuge che offre di più. È malato di emorroidi e all’inizio l’autore insiste su questa malattia, variante plebea dei tic dei detective di scuola inglese e delle ulcere dei poliziotti hard-boiled; vive con un manichino di donna nelle cui tasche nasconde frasi di amici o di scrittori (altra parodia delle donne fatali del noir statunitense) e spesso si sbronza; ha una relazione da tre anni con Mónica che però, stanca di suoi appuntamenti mancati, decide di tornare dal suo vecchio fidanzato Oscar, pur non interrompendo del tutto i rapporti, anche sessuali, con Silanpa.
C’è infine una folta schiera di corrotti e corruttori che pensa di trarre il massimo guadagno dalla lottizzazione di un vasto terreno sulle rive del lago Sisga, alle porte di Bogotà: l’anonimo e potentissimo gruppo economico GranCapital; il consigliere di Bogotà Marco Tulio Esquilache, legato a esso – politicamente parlando – a doppio filo; l’avvocato Emilio Barragán, che conduce una vita al di sopra delle sue possibilità minate dal gioco, e sua moglie Catalina, nipote di Esquilache il quale può così meglio sorvegliare l’avvocato col quale peraltro è in affari; Heliodoro Tiflis, malavitoso locale che non disdegna di speculare sui famosi terreni in riva al lago; e infine il già citato costruttore Angel Vargas Vicuña, senza scrupoli, avversario di Esquilache, anche lui interessato alla speculazione.
La vicenda si snoda così scivolando abilmente tra gli stereotipi del noir, ma al tempo stesso non rinunciando ad allusioni più o meno colte: come quando l’ineffabile Silanpa si fa consigliare da un caro amico e collega Fernando Guzmán, ora in una casa di riposo dopo alcuni attacchi di delirium tremens, al quale – come a un epigono di don Isidro Parodi – sottopone i risultati delle sue ricerche professionali (e delle sue disavventure sentimentali).
Il finale lascia al lettore poche speranze perché la società colombiana è troppo marcia per ambire a una qualche forma di riscatto: e se l’autore non ci risparmia né un intreccio talmente complesso da risultare a volte confuso, oltretutto con tutti gli stereotipi del giallo d’azione (donne, alcool, fumo, violenza, boss, polizia corrotta) miscelati in salsa colombiana, tuttavia è un suo merito da un lato non scomodare narcotrafficanti e guerriglieri (forse troppo scontati?) e dall’altro fare del fragile, cinico ed emorroidario Silanpa la vera e involontaria vittima dell’intera vicenda.
Voto: 6.5
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