Marco Proietti Mancini è nato a Roma nel 1961. Lavora in una multinazionale dell’informatica nel settore commerciale e si diverte, da sempre, scrivendo di tutto. Il suo primo romanzo è Da parte di padre. Mantiene collaborazioni su riviste, siti e blog con recensioni, prefazioni e postfazioni, poesie.
Un viaggio dove vera protagonista – oltre alla voce dell’autore che narra in prima persona – è la città eterna, coi suoi mausolei, le sue sculture, i retaggi, le sviste, le perle di storia dell’arte, gli aneddoti, le contraddizioni, la generosità dirompente che possiede solo chi è stato solcato dal passato e ne ha fatto tesoro. La malia di Roma si sposta dai luoghi ai ricordi, frazioni di una vita vissuta a fondo, senza tentennamenti. Così è un’emozione catturata, un cognato perso, amici borgatari, parentesi familiari mai scontate, che rimandano il lettore a una riflessione sull’esistenza. «Un libro che può essere considerato allo stesso tempo un romanzo e una guida emozionale per conoscere ancora meglio la metropoli più bella del mondo», recita la quarta di copertina. E così è. Una guida alternativa e preziosa scritta da un grandissimo conoscitore di Roma, uno spasimante della città, ideata col cuore in mano e la storia in testa, con uno stile immediato ma ineccepibile e con qualche breve, simpatica incursione nel romanesco.
Perché un libro su Roma, una città cui sono state dedicate opere, canzoni, pitture, e l’arte in generale?
Perchè forse questo, più che un libro “su” Roma è un libro “dentro” Roma. Scritto di pancia – e torniamo al “dentro” – e non di testa. E’ un libro non progettato, non programmato, se non fosse stato per la benevola insistenza di un editore giovane e con tanta voglia di pubblicare storie diverse dalle solite, non sarebbe mai uscito.
Il libro scorre veloce grazie a una costruzione libera ma sapiente e a un’ottima resa sia dei personaggi sia delle comparse. Come hai proceduto nella stesura?
Il riconoscimento della struttura del libro va tutto – o quasi tutto, confronti ce ne sono stati – ad una giovane editor appassionata, Giusy Di Marsilio, che ha preso storie scritte nell’arco di quindici anni e miliardi di passioni, fatti e vicende, stimoli vissuti, e ha saputo renderle capitoli di un romanzo emozionale. E con questo faccio outing, in origine non c’è stata una stesura, un “progetto libro”. Meglio così, alla fine è un libro a cuore aperto, senza filtri e senza veli o censure. Roma e un romano nudi come le statue che la riempiono.
Sei nel bel mezzo di un tour di presentazioni molto impegantivo. Impressioni e sensazioni?
Sono nel bel mezzo di un ciclone di emozioni e passioni, di parole che vanno e vengono da me a tutti quelli che incontro e tornano, si moltiplicano e amplificano. Sono nel mezzo di una felicità nella quale non voglio mettere ordine, una felicità ingenua – senza nessuna falsa modestia – che voglio rimanga tale. Perchè da tutto questo io voglio trarre altri stimoli, per conoscere meglio le persone che sto incontrando e scrivere ancora, di loro, di tutto. Come mi piace fare.
Parlaci della tua urgenza di scrivere
Dovrei usare la definizione che di me ha dato uno scrittore e giornalista vero, uno di quelli importanti, anche dall’alto dei suoi quasi cinquanta volumi pubblicati tra saggi, biografie e romanzi. Michele Monina mi ha detto: “Tu SEI uno scrittore, non FAI, lo scrittore”. Io credo che di tutti i complimenti non potesse farmene uno più bello. Dopodichè, essendo notoriamente un cinico – nonchè un amico – ha detto anche “che non vuol dire che tu sia un BRAVO scrittore”. Ecco, forse è tutto qui, quello che per me significa “urgenza” di scrivere. Se non scrivo sto male, se non obbedisco alle voci di dentro che premono per uscire sto male, se non rovescio, io dico “vomito” ma mi dicono che non è un termine fine, quello che sento, che provo, esorcizzandolo scrivendo, mi sento inutile. Poi, mentre lo sto facendo, entro in una specie di trance, lontano, distante da tutti e tutto. Io e le mie parole, i miei personaggi. Le mie storie. Sempre con Michele abbiamo provato a definire “lo scrittore”, io ho anche mutuato la definizione che ne ha dato un’altra grande scrittrice contemporanea, Marilù Oliva, ovvero “schizofrenico”, poi abbiamo detto “posseduto”, “autistico”, “sonnambulo”. Poi ci siamo fermati, rendendoci conto che andavamo sempre peggiorando e rischiavamo il ricovero.
Cosa preferisci leggere e perché?
Da Salgari a Stephen King, passando per De Amicis e Guareschi, con deviazioni verso Dave Zeltserman e Geoffrey Deaver; per essere chiaro, leggo tutto, di tutto, senza nessun pregiudizio o criterio selettivo basato sulla suddivisione in “generi” della letteratura. Quella la lascio fare agli uffici marketing delle case editrici. L’unica scelta la faccio prima delle vacanze estive, quando so che avrò davanti molti giorni di lettura rilassata e dilatata nel tempo, allora mi dedico anno dopo anno a leggere qualcosa di impegnativo. Un anno il Moby Dick di Melville, un altro anno il David Copperfield in edizione integrale, le “Memorie intime” e “Pedigree” di Simenon. Quest’anno il “Mussolini” di Smith.
Come pensi si sia evoluta la tua scrittura?
Imparando il rispetto delle “regole” per scrivere che sono necessarie se si vuole pubblicare. Accorciando le frasi, riducendo la punteggiatura, usando un aggettivo in meno piuttosto che uno in più. Mi sono reso conto, un po’ da solo, un po’ grazie ai consigli degli amici e del mio editore, che scrivere “troppe cose” non aggiunge nulla, ma annoia i lettori. Se vado a rileggermi uno dei racconti scritto venti anni fa mi piace ancora, ma lo riprendo, lo riedito e diventa la metà.
Cosa ne pensi dell’etichetta data ai generi, che li suddivide in piani alti e sottocategorie più popolari?
Credo di aver risposto un paio di domande fa. Ma per completare il concetto dico che mi pare una cazzata – mal che vada mettete un biiip. Per me esistono solo tre generi, nella letteratura; i buoni libri, i libri normali, i cattivi libri. L’unico sottogenere che ammetto è nel buoni libri, e si chiama “capolavori”. Ma nelle migliaia di libri che io ho letto da quando so leggere, i capolavori sono forse venti. Ed è giusto che sia così. Se poi volete sapere quali siano il libri “normali”, sono quelli che leggi, che non ti dispiacciono, ma che dopo poche settimane non ti ricordi bene di cosa parlassero. I “tavernello” della letteratura.
Come si concilia il tuo lavoro di tutti i giorni e quello di scrittore?
Scrivendo di sera, di notte, nei fine settimana. Riassegnando piorità, che sempre più sono a favore dello scrivere. A cinquantuno anni suonati non inseguo più obiettivi di carriera, non ho più voglia di dimostrare qualcosa nel mio “lavoro di tutti i giorni”. Gli stimoli forti mi vengono dallo scrivere.
A cosa stai lavorando, ora?
Sto terminando il mio quarto romanzo, ma chissà se e quando uscirà. Prima ci sono pronti il secondo romanzo, che è la continuazione – non il “seguito” – di “Da parte di Padre” che dovrebbe uscire ad inizio 2013 e essere presente a Torino; e ancora un romanzo con una storia ed una ambientazione totalmente diversi dai miei precedenti scritti. E intanto in testa e in pancia già premono i personaggi del quinto romanzo.
Ci saluti con una citazione dal libro?
“... ni romani raddoppiamo le z e togliamo le g, arrotoliamo le r, spingiamo le v e le f. Un vaffanculo in bocca a un romano è una sassata in faccia a chi se lo prende. E ne diciamo tanti, di vaffanculo, noi romani, abbiamo sempre le tasche piene di sassi e la bocca è come una fionda.
Noi romani siamo spietati, sembriamo molli, indifferenti, pigri, ci lasciamo stuzzicare, provocare, riduciamo al minimo gli sforzi, sopportiamo, perché combattere è faticoso, è meglio dormire. I nemici sono come zanzare, pungono, disturbano, svolazzano, e credono di essere forti. Ma poi il romano si sveglia, apre un occhio, uno solo, poi tra le labbra sussurra un «mo’m’hai rotto er cazzo»....
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