Il bel Danubio blu scorre lungo rive tutt’altro che placide. Il viaggio fra le capitali delle spie si conclude in una Vienna non certo da cartolina. A suo tempo, si parlò di fattore H, fatidica iniziale che accomunava a Hitler il controverso leader xenofobo Jörg Haider. Il suo ingresso nella coalizione di governo a Vienna dimostrò una volta di più che la fine della Guerra Fredda aveva scatenato una pace fatta di fibrillazioni.
È passato più di un secolo dal Dämmerung einer Welt, il crepuscolo di un mondo, efficace titolo del libro che Franz Werfel dedicò nel 1928 alla caduta dell’Impero Asburgico. E nella Vienna delle spie si perdeva ogni traccia di quel paternalismo detto Fortwursteln, “tirare comunque avanti”.
Il manuale di approccio a Vienna è Il mondo di ieri, di Stefan Zweig. Tra quelle pagine così votate alla retrospettiva non alberga la disperazione, ma la lucida analisi di un fulcro epocale e geopolitico. Scrive Zweig: «Questa città assimilatrice e dotata di una particolare sensibilità attirava a sé le forze più disparate, pacificandole ed ammorbidendole: era dolce vivere in quell’atmosfera di tolleranza, dove ogni cittadino, senza averne coscienza, veniva educato ad essere supernazionale e cosmopolita».
Parole chiave: “assimilatrice”, “supernazionale” e “cosmopolita”. Perfette se vengono capovolte nei riscontri. L’assimilazione è il fondamento della spia che agisce in incognito. La supernazionalità si presta agli sconfinamenti nell’assetto bipolare del dopoguerra. Lo stesso per il cosmopolitismo, che gli agenti segreti devono calzare come una seconda pelle. Loro, infatti, non appartengono che ai padroni occulti delle operazioni sul campo. Il resto, lealtà, ideali, etica, sono fattori estranei.
Sarebbe utile un’indagine postuma sulle varie cause che hanno fomentato, favorito e provocato la caduta dell’Impero Asburgico. La Vienna e l’Austria di oltre cento anni fa erano un paradiso minato dalla dissoluzione del futuro, in cui, non per la prima volta, si cercavano congiure tra le quinte della finanza ebraica. E l’eco preoccupante rimane nel risorgere della xenofobia anche dopo la morte per auto dell’ultranazionalista Joerg Haider.
Arrivare a Vienna, comunque, significa lasciarsi indietro difficoltà ordinarie del mondo comune. Malgrado la città sorga sulle rive del Danubio, l’aria è asciutta, le precipitazioni rare e l’escursione termica moderata. La neve dei mesi più freddi non fa che aggiungere piacevolezza decorativa. Perfino gli sparuti mendicanti di Vienna sono educati nell’accattonaggio... e chiedono in diverse lingue, considerando accortamente che hanno più chances con i turisti. La metropolitana è pulitissima, i graffiti non esistono. Lo si vede subito nel CAT, il City Airport Train, che conduce dallo scalo di Schwechat al centro di Vienna. Naturalmente, anche l’ex capitale asburgica ha il suo punto da evitare. La zona pedonale di Kärtnerstrasse, che da Karlsplatz porta a Stephansplatz passando dinanzi alla Staatsoper. Qui sono concentrati i negozi di souvenir e i loro clienti abituali: i turisti di massa.
L’aveva già scoperto il protagonista de Il terzo uomo, di Graham Greene, scritto come romanzo in contemporanea alla sceneggiatura per il film di Carol Reed del 1949. Joseph Cotten interpreta Holly Martins, uno scrittore al verde che si aggira per la Vienna in rovine subito dopo la guerra. La “macedonia di razze” copre identità sospette. A cominciare da quella di Anna Schmidt, Alida Valli, che cerca con tutti i mezzi di procurarsi un salvacondotto. Ma, naturalmente, il più elusivo di tutti è Harry Lime, Orson Welles, l’amico di Holly Martins. Quest’ultimo ha creduto di assisterne al funerale. Invece Lime è vivo. Martins lo incontra, dopo varie, tortuosissime tribolazioni, sul Riesenrad, la ruota panoramica del Prater. In una cabina della giostra si svolge uno dei dialoghi più celebri nella letteratura e nel cinema non solo di spionaggio. Ormai Martins ha capito che l’amico manovra il mercato nero, controlla e manipola la “macedonia” di razze poi individuata da Fleming. Con un cinismo che nasce dalla celebre constatazione di Lime-Welles: visti da quell’altezza, gli uomini sembrano tutti delle formiche. Formiche tra le quali si annidano anche i criminali di guerra nazisti.
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