Ma insomma, alla fine, questi cattivacci di primo secolo di quali strumenti mortiferi si avvalevano per l’esecuzione delle loro trame immaginose?
Ce ne sono di tutti i colori: pensate soltanto a quanta brava gente viene ammazzata per esempio da un serpente velenoso liberato ad arte nel loro boudoir. O a quelli fatti fuori con i moderni ritrovati di allora, elettricità, tramway a cavalli, investiti da biciclette. Addirittura i primissimi ammazzamenti con corde o calze di nylon appaiono subito dopo l’entrata in commercio del prodotto. E così per ogni nuovo ritrovato: certo, non disponevano mica del famoso Polonio, però quanto a morti radioattive il Radio entra ben presto nella farmacopea criminale, non appena se ne scoprono gli infausti esiti sui coniugi Curie.
È però roba da raffinati, più da storie di fantascienza che di onesto mystery. Nel campo dell’avvelenamento i nostri invece ricorrono a lungo a preparati più dozzinali, e solo il boom moderno dei vari C.S.I., R.I.S. e via dicendo costringerà assassini e scrittori a modernizzare l’attrezzeria.
Ma prima, per molti decenni, a farla da padrone saranno invece proprio i soliti mezzi sicuri e collaudati della tradizione. Senza parlare della vecchissima triade cicuta, aconito e stramonio, che evocano inevitabilmente ammazzamenti classicheggianti o in stile rigorosamente gotico, è sicuramente il vecchio arsenico a farla da padrone per parecchio, almeno da Lucrezia Borgia fino a Agatha Christie. Polverina bianca amarognola, facilmente reperibile sul mercato sia come preparato medicinale per le terapie più diverse che come veleno per roditori, l’arsenico gode infatti rispetto ai suoi rivali di una simpatica caratteristica: rifilato a piccole dosi crescenti simula parassitariamente i sintomi di malattie conviviali come gastriti, ulcere, cirrosi epatiche, consentendo spesso al cattivo/a di farla franca, specie se in presenza di medici di campagna di bocca buona e poco aguzzi d’ingegno.
Meglio un’arma da taglio, allora. Che però anch’essa ha in sé qualcosa di insoddisfacente, ammettiamolo. Va bene per una rissa, ma il delitto studiato ha bisogno di distacco, è un atto cerimoniale e non un semplice esercizio circense di forza.
Resta allora la regina indiscussa del crimine, la pistola. Non che non spossa ammazzare anche con il cannone, il fucile o la sega a nastro: ma la pistola per motivi intuibili è l’arma per eccellenza. Come in una moto Ducati, il suo rapporto peso/potenza è quello ottimale, senz’altro da preferire.
Com’è intuibile, sono i conflitti ad arricchire il mercato di una serie infinita di efficienti strumenti mortiferi, sia che si vincano o che si perdano. La Grande Guerra per esempio scarica nelle sinistre brughiere inglesi un buon numero di gentiluomini armati di Webley, pistolona d’ordinananza di grosso calibro. Un’arma romantica, di semplice e robusta concezione, già sperimentata con successo nelle campagne contro gli Zulù, i Boeri, i fanatici del Mahdi, i barbuti afgani, insomma tutti quei puzzoni che si opponevano ostinatamente all’Impero. L’unico problema è che la Webley è grande e grossa, e poi fa un rumore del diavolo. Poco adatta quindi per delicati delitti al femminile, o qualora non si apra il fuoco sull’onda di furia incontenibile da moglie sorpresa con l’amante.
Per esempio può utilizzare un’ampia gamma di automatiche di calibro 22, prodotte dalla Browning, dalla Colt e da un’infinità di piccole altre aziende artigianali, con meccaniche piccole e raffinate come orologi svizzeri. Che a differenza delle loro colleghe rotanti non hanno parti esposte, non sporcano e possono essere tranquillamente riposte in tasca o nella borsetta, accanto al portacipria e al rossetto.
E i cugini americani che fanno? Sono strani. A giudicare dal numero di armi western che circolano sparacchiando in giro, tra Secessione e guerra di Cuba, uno si aspetterebbe un largo uso delittuoso di Colt Navy o Frontier. E invece niente, a parte qualche assalto in banca un po’ retrò, di quelli che senza Sergio Leone o Sam Peckinpah nessuno se ne ricorderebbe nemmeno. Forse perché i ferri alla generale Custer fanno ormai troppo terrone texano, o perché sono talmente imprecisi che ci vuole davvero coraggio a usarli, già alla fine dell’Ottocento sembrano usciti dal panorama narrativo come spettri indiani. Gli Americani, se dovessimo giudicare dal cinema, li diremmo in preda ad ossessione da monomarca, peggio degli Italiani del boom con la Fiat 500: uomini donne e infanti non fanno che indossare sotto gli abiti la Colt 45.
Ma è solo fiction, diciamocelo. Primo, perché quella progettata da mr Browning è un cannone che sfonderebbe ogni tasca degli eleganti doppi petti di Marlowe, tanto lunga che se siete in due a spararvi in una stanza bisogna mettersi prima d’accordo, e aprire almeno una porta o la finestra. E infatti l’unico modo per portarsela addosso senza farsi riconoscere anche dai lattanti è quello di ricorrere a una robusta fondina ascellare, e a un bell’impermeabile sformato alla tenente Colombo, di un paio di misure più ampio.
E poi perché la mod. 1911 - così recita il corretto copyright - è arma fornita in esclusiva all’U.S. Army, che ne assorbe pressoché intera la produzione almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale. Il che ne rende scarsa la diffusione per imprese private. Così i piccoli imprenditori del crimine degli States devono ricorrere ad altro: c’è la solita S&W 38, una specie di tuttofare buona per tutte le stagioni. Con lei si sparano indifferentemente guardie e ladri, tanto è robusta e versatile. I proiettili poi li trovi anche dal droghiere, costano poco e puoi fare tranquillamente esercizio.
Se la signora non si trova d’accordo (la 38 è comunque un bel pezzo d’acciaio) ha un’ampia scelta alternativa: può orientarsi su una Derringer, piccola e di semplice uso, facile a nascondersi quasi dappertutto. Dappertutto, tranne che sotto la giarrettiera: questa è una scemenza che si sono inventati i cinematografari, la Derringer è una calibro 45 e pesa il suo buon mezzo chilo. Per cui bisognerebbe essere la donna cannone.
Altrimenti può ripiegare sulla vasta gamma delle automatiche Browning di piccolo calibro o, se è una raffinata, accedere a uno dei modelli di importazione europea.
E allora non si discute: come per i vini e i profumi, Paris sera toujours Paris. Qui andiamo sul sicuro: tra fabbriche belghe e francesi c’è veramente il meglio del meglio. Spendo solo due parole sul grande Nagant, inventore di un sistema brevettato di avanzamento del tamburo che consentiva di sigillare in modo pressoché perfetto la fuoriuscita dei gas della combustione, in modo da ridurre la perdita di potenza: espediente notevolmente utile per attenuare anche l’efficacia del guanto di paraffina, ed è una vera disdetta per i poveri assassini che poi sia stato abbandonato per i maggiori costi di produzione che comportava. Ma a parte questa, il tiratore filogallico può sbizzarrirsi: Galand, Saint-Etienne, Lebelle, Gallia, Le Majestic e via così. Sembrano marche di champagne, no?
Per ammazzare in definitiva ogni pistola va bene, perché alla fine quello che conta è il risultato: ma con le francesi è meglio ancora, per via della forma. Raffinata, curata nei dettagli, quasi al cesello in alcuni casi. Con tocchi stilistici che sono una piccola antologia, dal Beaux Arts al Decò. Insomma fortunato Maigret, che può averci a che fare.
E gli Italiani? È presto detto: avrete notato, se siete lettori d’epoca, che nei gialli nostri tra le due guerre difficilmente si fa riferimento all’arma del delitto. Petrosino-Nerbini è un fan della Browning a 12 colpi, che bontà sua deve aver sognato da qualche parte. Gli altri in genere sorvolano. Non è trascuratezza: è colpa di B&B, Beretta e Berardinelli. È inutile specificare, da noi c’è poco da scegliere: a meno che non vogliate far sparare a qualcuno da un ex ufficiale di cavalleria sabauda, e allora gli mettete in mano una vecchia Glisenti, alla fine è sempre una delle due. Accontentiamoci, perché vi assicuro che tirano proprio bene.
(à suivre)
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