James Myers Thompson è lo scrittore più innovatore e rivoluzionario del noir degli anni ’50. La sua vita assomiglia molto a un romanzo: dopo un’infanzia ed un’adolescenza avventurose, inizia una sequela di lavori incredibile – caddie, redattore di giornali e riviste locali, attore di burlesque, fattorino d’hotel, tuttofare in una sala per giochi d’azzardo, trivellatore nei pozzi di petrolio (origine di benessere e fallimento delle fortune del padre), dinamitardo (!), e persino contrabbandiere d’alcool -.
È così che fa la conoscenza dell’umanità bizzarra, violenta e insieme terribilmente affascinante dei suoi 29 romanzi. La grandezza di Thompson risiede nel maestoso, ancorché semi-ignorato, talento con cui ha introdotto nella letteratura popolare il racconto, in prima persona, della follia criminale [1]. La ferocia e il cinismo permeano l’agire di mostri assetati di sangue: “inventò la psicologia del cattivo dal volto normale, ma con i vermi nel cervello”[2]. Le sue maschere cruente declinano l’efferatezza in maniere diverse.
Uno dei migliori personaggi thompsoniani, il Willie Kid Collins, protagonista di After Dark, My Sweet (È già buio, dolcezza, 1955), è “un’oscillazione del tutto originale tra la diffidenza e un’infantile ricerca di amore e rassicurazione”[3]. La vicenda, imperniata su un losco rapimento allestito dall’improbabile trio formato, oltre che da Collins, da una fatalona alcolizzata e da un gangster mezzatacca, fa da sfondo, infatti, alla malattia dell’ex pugile, che ora pare lasciarsi andare al delirio della forza bruta (“La nebbia rossa s’addensò davanti a me. Dovevo liberarmene, sfogarmi in qualche modo, perché altrimenti l’avrei ammazzata”[4]), ora abbandonarsi ad un candore commovente (“[Il bambino] stava male, malissimo. Ma lentamente un sorriso gli si allargò sul volto, e penso sia stato il sorriso più bello che io abbia mai visto”[5]). Thompson non condanna i suoi personaggi, anzi ne accompagna la tenera fragilità e disillusione.
Ben altro shock dovette provocare nell’America maccartista ossessionata dai Rossi l’uscita tre anni prima dello sconvolgente The Killer Inside Me (L’assassino che è in me, 1952). È qui, più che altrove, che la paranoia trova una delle più precise descrizioni. La folle mente dello sceriffo Lou Ford[6] ci narra come egli, con molta innocenza e pari sadismo, faccia fuori chi, per sua sventura, gli provochi un qualche intralcio:
Era del tutto assurdo, ecco. Non era giusto. Avevo fatto tutto quanto era in mio potere per sbarazzarmi di un paio di cittadini indesiderabili in modo pulito, senza contraccolpi. Ed ecco che uno dei due era ancora vivo; e quell’altro stava facendo scoppiare un pandemonio[7].
Sebbene la narrazione in prima persona non sia affatto una novità (la primogenitura è di James M. Cain), va riconosciuta allo scrittore dell’Oklahoma la capacità di sperimentazione linguistica. Un altro enorme merito è “l’invenzione di attribuire sadismo e devianza a un tutore della legge”[8] che dovette sconvolgere a tal punto i censori a stelle e strisce, che relegarono Thompson, una volta per tutte, nel limbo dei paperbacks per edicole. A Thompson l’idea della legge come tutela dei cittadini non è mai andata assai a genio, dalle sue opere emerge “un mondo dove la legge è sempre e comunque nemica. (...) La violenza resta l’unico modo per affermare di esistere”[9].
Non è un mistero che avesse simpatie di sinistra, è quasi sicuro fosse iscritto al Partito comunista, espresse favore e sostegno per Roosvelt e il New Deal. Ciò che conta, al di là della militanza politica, è che Thompson ebbe due fari che illuminarono la sua carriera: Marx e la tragedia greca[10], ovvero i primari richiami del noir all’ingiustizia del sistema capitalista (il primo) e all’ineluttabilità del lato violento e brutale dell’uomo, della carne e del sangue (la seconda). A parte i suoi primissimi romanzi sociali, le attenzioni alla realtà sociopolitica sono leggibili a più strati: da quello più superficiale ed episodico con attacchi diretti alle scelte di politica sanitaria del governo americano (accenni in After Dark, My Sweet) o alle istituzioni carcerarie (Recoil, Una libertà troppo condizionata, 1953), a quello più esplosivo e di fondo con una disamina impietosa dell’american way of life. La corruzione che dilaga inquina non solo il potere locale (ancora in Recoil: “E più si è onesti, maggiormente i lupi azzanneranno”[11]), ma le stesse vite degli americani. Thompson evoca “un’America anni Cinquanta comunque periferica e perduta, segnata puntualmente dalla sconfitta. I protagonisti sono produttori di infelicità per sé e per gli altri"[12], che si tramuta in efferata crudeltà in quelle sacre istituzioni, la cui mostruosità Thompson si diverte a dissacrare: la famiglia, il matrimonio.
C’è allora la fuga, uno spiraglio per uscire. È nel meraviglioso The Getaway (Getaway, 1959), probabilmente il più cainiano tra i noir di quest’autore, che la rapina diviene prospettiva concreta di un’esistenza altra. Carter “Doc” McCoy e la moglie Carol mettono a segno l’hold up, il colpo che ogni rapinatore spera un giorno di compiere per sistemarsi una volta per tutte. Un presunto tradimento, la paura incrinano la perfetta unione nella coppia di ladri, in maniera non dissimile da The Postman Always Rings Twice.
L’ambiguità, preciso segno thompsoniano, si staglia come un’inevitabile macchia nella loro storia: Doc confonde pazzia, odio e amore (“E Doc la teneva stretta stretta. (…) Perché lei era sua moglie, più cara per lui, più cara della media delle mogli per la media dei mariti. E se le circostanze lo costringevano a pensare a lei come un’avversaria, e non era sicuro che così fosse, almeno per il momento, lo faceva sempre con amore e con grandissimo dispiacere”[13]), altrettanto fa Carol (“E Carol si domandò perché temeva così tanto Doc…(…) E come poteva allo stesso tempo amarlo come mai avrebbe potuto amare un altro”[14]). Thompson non risparmia cadute nel grottesco – i rapinatori, per nascondersi e coprirsi la fuga, finiscono prima in minuscole grotte e poi sotto un mucchio di merda – e conclude il romanzo con un colpo di spietatezza da maestro: i due sono seduti ai tavoli di un lussuoso hotel, in attesa della morte, per mano di un killer che, l’uno all’insaputa dell’altro, hanno assoldato per eliminare il coniuge.
Proprio il finale di The Getaway rappresenta lo spunto ideale per introdurre il discorso del rapporto tra Thompson e il cinema. Se va debitamente ricordata la collaborazione alla sceneggiatura di quella summa del noir che è The Killing (Rapina a mano armata, 1955), nonché di Paths of Glory (Orizzonti di gloria, 1957), terzo e quarto film di Kubrick, è dall’adattamento di Getaway di Peckinpah che bisogna partire per capire il fallimento del cinema nel tradurre in immagini Thompson. La spiegazione sta nella diversa sensibilità artistica dei due: “un finale così grottesco e maligno mal si conveniva all’animo sostanzialmente romantico di un Peckinpah”[15].
Thompson resta un cane rognoso per chiunque cerchi di tradurlo sullo schermo: ci hanno provato in tanti[16], ma, per svariati motivi, nessuno di loro ha lasciato una firma speciale nel registro del grande noir. Thompson è morto dimenticato, come Goodis, e, come Goodis, è stato riportato alla luce dalla meritoria opera di traduzione e ristampa degli editori francesi Duhamel e Guerif.
Non è che si illudesse molto sulla vita, la fama e cose del genere, come testimonia la sua autobiografia Bad Boy (id., 1953): “Capisco che più bello è un sogno, più senza speranza è la sua realizzazione, più l’unica cosa fattibile diventa coglierlo e distruggerlo”[17].
[1] G. FOFI, In 'difesa' di Jim Thompson, in J. THOMPSON, L’assassino che è in me, Roma, Fanucci, 2003, p. 229.
[2] P. SORIA, Thompson. Siamo tutti assassini, «Tuttolibri», 11/10/2003.
[3] L. BRIASCO, Nota sul romanzo, in J. THOMPSON, E’ già buio, dolcezza, Roma, Fanucci, 2003, p. 200.
[4] J. THOMPSON, After Dark, My Sweet, 1955, tr. it., di A. Martini, E’ già buio, dolcezza, cit., p. 165.
[5] Ivi, p. 111.
[6] Leggenda vuole che questa creatura letteraria sia il frutto di un incontro che lo stesso Thompson ebbe con uno strano poliziotto. Si veda il cap. 24 in J. THOMPSON, Bad Boy, 1953, tr. it., id., Torino, Einaudi, 2001, pp. 176-183.
[7] J. THOMPSON, The Killer Inside Me, 1952, tr. it., di A. Martini, L’assassino che è in me, cit., p. 55.
[8] L. BRIASCO, Nota sul romanzo, in J. THOMPSON, L’assassino che è in me, cit., p. 233.
[9] P. CACUCCI, Jim Thompson o della discesa agli inferi, in J. THOMPSON, Bad Boy, cit., p. 239.
[10] M. CICALA, L’uomo che scriveva per Kubrick e scambiò Marx con il whiskey, «Il Venerdì di Repubblica», n. 809, 19/09/2003.
[11] J. THOMPSON, Recoil, 1953, tr. it., di L. Grimaldi, Una libertà troppo condizionata, Milano, Il Giallo Mondadori, n. 1083, 1969, p. 79.
[12] E. DI MAURO, Storie alcoliche e vagabonde, l’America perdente di Jim Thompson, «Il Corriere della Sera», 19/08/2003.
[13] J. THOMPSON, The Getaway, 1959, tr. it., di M. L. Bocchino, Getaway, Milano, I Classici del Giallo Mondadori, n. 747, 1995, p. 130.
[14] Ivi, p. 114
[15] D. FERRARIO, Dentro l’abisso. Jim Thompson e il cinema, in F. D’ANGELO, P. VECCHI (a cura di), B-movie. Cinema americano di serie B e dintorni, Firenze, La Casa Usher, 1989, p. 153.
[16] Tra i film più importanti: Serie Noire (Il fascino del delitto, A. Corneau, 1979 da A Hell of a Woman, Diavoli di donne, 1954), Coup de torchon (Colpo di spugna, B. Tavernier, 1981 da Pop. 1280, id., 1964), After Dark, My Sweet (Più tardi al buio, J. Foley, 1990 dall’omonimo romanzo) e infine The Grifters (Rischiose abitudini, S. Frears, 1990 dall’omonimo romanzo del 1963).
[17] J. THOMPSON, Bad Boy, 1953, tr. it., di F. Angelini, id., cit., p. 97.
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