Certo la scienza ne ha sempre terrorizzati molti, dai tempi dei tempi! Una volta si chiamavano alchimisti. Bella genia di eretici, indemoniati, anticristi. Dopo Hiroshima è stata la volta degli scienziati atomici, a impazzire e far danno. Tra le due guerre invece sono andati molto gli strizzacervelli, soprattutto nella variante psicoanalitica.

Ce ne sono più d’uno che fanno capolino furtivi dalle pagine di molti romanzetti, spesso barbuti, ostinatamente riottosi verso la società glabra che si è imposta da quando il signor Gillette ha cominciato a inondare il mondo con le sue lamette, nel 1901. Barbuti, guarda caso, come Sigmund Freud.

Intendiamoci. Freud, come mentore di sbandati e criminali, era un candidato favorito al ruolo: non fosse altro per quella storia che vorremmo portarci a letto nostra madre. E chiaramente uno che soltanto immagina una cosa del genere non deve essere tanto normale. Pensate a come saranno quelli che gli danno retta, si devono esser detto in parecchi, tra gli scrittori del momento. Del resto, quella di ritrovare una qualche aggancio con il comune sentire del lettore è una pratica sempre diffusa tra gli scrittori di genere. Inoltre quella scienza era davvero nuova, e anche abbastanza confusa, quando un belga, tale Norbert Jacques pensa di ricorrerci per dare un mestiere al suo villain. E butta giù sulla pagina il personaggio sinistro del dottor Mabuse. Il quale è esattamente quello che recita la targa alla porta: uno psicoanalista. E per di più ipnotizzatore, di quelli che ti arpionano con lo sguardo, peggio di Mandrake. E per di più trasformista, abile con le parrucche e le barbe finte. E poi illusionista, capace di sparire da una stanza chiusa come un fantasma.

Insomma si capisce che il nostro Norbert, più che documentarsi sugli scritti del Viennese, deve aver frequentato a lungo i palchetti del Grand Guignol, il grande nonno di tutti noi che immaginiamo delitti arcani. E poi Norbert qualche tratto particolare doveva avercelo di suo: tra qualche anno lo ritroveremo in compagnia dei lupi, a sceneggiare filmetti per Hitler, e per di più in tedesco, proprio in un momentaccio dal punto di vista dell’immagine, quando la Wermacht scorazza per la sonnacchiosa campagna belga sollevando molti ohibò tra i suoi concittadini. E lui nemmeno una piega, tranquillo.

          

Ma procediamo con ordine. Siamo dunque nel 1921, e Norbert dà alle stampe un grande libro, intitolato al suo eroe eponimo: Dr Mabuse, der Spieler. Intendiamoci, Norbert non è mica uno scrittore da edicola della stazione, è un artista e un giornalista serissimo, lodato anche da Thomas Mann. E però c’è l’unghiata sulfurea del Diavolo dei Pulp in quello che scrive, anche nel destino editoriale. Infatti il romanzo appare a puntate sul Berliner Illustrierte Zeitung: insomma è un bel feuilleton, corposo e senza ambiguità nella massa di emozioni che propone al lettore.

Ambiguo lo è invece proprio nel titolo: spieler in tedesco vuol dire giocatore, ma anche attore, commediante, saltimbanco, suonatore. Una parte della storia è certo dedicata alle attività di baro dell’eroe, ma è troppo poco perché divenga una specie di titolo accademico con cui fregiarsi. In effetti Mabuse è molto di più di un semplice baro, seppure dotato di un’abilità diabolica arricchita dai suoi poteri mesmerici. Mabuse è un mago. Un tramatore di perdizioni, una versione moderna, a corrente elettrica, del vecchio Mephisto che tanto inquieta da secoli i sonni teutonici. Accidenti, è uno psicoanalista! Pensate che da noi solo due anni dopo arriverà Svevo, con il suo Zeno, a dirci che quella della psiche profonda è l’ultima frontiera della letteratura, ma pochi gli daranno retta.

             

Invece a Berlino le cose vanno subito bene per Norbert. Il suo racconto viene notato da una figura singolare di quegli anni, Thea von Harbou, che è nell’ordine: una donna bellissima, una scrittrice talentuosa di suo e, soprattutto, l’attuale compagna del regista Fritz Lang.

Lang non è ancora il genio che si rivelerà negli anni a seguire. Però è già tra i due o tre registi che stanno cambiando il cinema tedesco. Thea non ha ancora subìto la fascinazione hitleriana che la porterà a aderire al partito negli anni Trenta. Però ha già intuito che per la Germania è il momento dei grandi uomini e dei complotti. Il romanzo di Jacques mette insieme proprio questi due temi, e avanza una suggestiva spiegazione per tutti i disastri cui sta andando incontro la già moritura Repubblica di Weimer. Il delitto organizzato impazza per le strade, droga e prostituzione si sono impiantate nel cuore delle stesse famiglie borghesi, l’economia sta andando a rotoli mentre un’inflazione spettacolare trasforma i marchi in carta straccia. Norbert sa di chi è la colpa, e lo scrive a chiare lettere, solleticando la faciloneria del lettore distratto, che magari ci crede davvero. E non è azzardato ritenere che quando di lì a poco Hitler comincerà ad attribuire agli ebrei la colpa di tutte le nefandezze, un po’ di terreno glielo abbia spianato proprio Mabuse.

Intendiamoci, il dottore non è ebreo, non è il crudele Eastman delle dispense di Petrosino: anzi è una sorta di eroe negativo rigorosamente ariano (del resto gran parte della sua forza nasce dalla capacità di infiltrarsi nella società berlinese bene dell’epoca, cosa che sarebbe riuscita con difficoltà a un figlio di Israele) con tutte le stigmate, direi quasi l’aplomb dell’eroe wagneriano, una specie di Hagen con le corna nascoste dalla bombetta.

Rudolf Klein-Rogge nel ruolo del dottor Mabuse
Rudolf Klein-Rogge nel ruolo del dottor Mabuse
Intendiamoci ancora, Norbert è un nordico per bene, di Kultur, del tutto privo di quell’amoralismo latino che porta certi figli decadenti della Civilization tipo Allain e Souvestre, o LeBlanc, a esaltare pezzi di delinquenti come Fantômas o Arsenio Lupin, e a svillaneggiare le forze dell’ordine come anarchici bombaroli. Norbert tiene invece per il suo Sigfrido, il procuratore von Wrenk, che si danna l’anima e suda parecchie camice per tenere insieme le macerie di quella società onesta che gli paga lo stipendio. E infatti alla fine la giustizia trionfa, e Mabuse incontra il suo destino logico e moralmente necessario: la morte.

              

Questo nel libro, perché la trasposizione di Thea a questo punto ha il colpo d’ala che è mancato a Norbert: infatti, dopo aver convinto il suo compagno a realizzare la versione cinematografica del romanzo, si è gettata a corpo morto nella sceneggiatura e nemmeno un anno dopo l’ultima puntata il film esce nelle sale.

Solo che la fine è diversa: invece di morire Mabuse impazzisce, ripreso nell’ultima dissolvenza mentre fuori di sé gioca come zio Paperone con la montagna di banconote, frutto inutile della sua cospirazione. E, forse, rese ancor più inutili dalla svalutazione. Finale di genio, perché ottiene in un colpo solo di salvare la morale e di gettare le premesse per il seguito. Mabuse, ormai trasfigurato dalla follia che lui stesso ha diabolicamente indotto in tante sue vittime, ascende a un diverso piano dell’esistenza da cui ritornerà trionfalmente ne Il testamento del dottor Mabuse. E soprattutto, con un sublime senso del contrappasso, colpisce il doctor maleficus proprio nell’organo con cui egli ha dominato i suoi succubi, il cervello.

Ancora un film di Lang e Thea, forse il loro migliore, insieme con Metropolis e M. Quello che fece infuriare Goebbels, al punto di farlo ritirare dalla circolazione. Storia questa che meriterebbe tutto un capitolo per sé, proprio per la stranezza della vicenda, e della scarsa logicità del tutto: se i nazi erano davvero così imbestialiti, perché avrebbero dovuto poi offrire a Lang la direzione di tutto il cinema di stato, osannare Thea e accogliere Norbert Jacques per gli anni a seguire?

No, c’è qualcosa che non torna, e magari ve lo racconto la prossima volta.

(a suivre)