Cadde, e mentre il mondo si capovolgeva più volte intorno a lui la terra si spaccò. Dalla ferita eruttò la lava nera incandescente, il sangue d’Islanda, e quando Kveld riuscì ad alzare la testa uno spettacolo incredibile si presentò davanti ai suoi occhi.

Mista alla neve, cominciò a cadere una pioggia nera.

Ne aveva sentito parlare dai vecchi che, sopravvissuti all’Hekla, l’avevano vista e ancora la ricordavano. Ma quella cosa era straordinaria.

Lapilli di lava nera e bollente foravano i cristalli trasparenti di neve gelida, e tutto turbinava insieme. Bianco e nero, caldo e freddo. Si annullavano e copulavano misticamente. Per lo stupore e un senso di orrore sacro, Kveld sentì che una strana esultanza lo pervadeva.

Attraverso quella precipitazione impossibile, come una cortina scintillante, vide che la voragine si allargava dividendo in due il fiordo. Le case del villaggio si accartocciarono come se un’immensa mano le stritolasse, e vennero inghiottite nel precipizio.

Kveld rise, non perché la fine dei suoi genitori e di tutti quelli che conosceva a Borg, i ragazzi che erano cresciuti con lui, lo rallegrasse; ma perché all’Hekla sull’isola corrispondeva un’Hekla dentro di lui. Tutti i suoi sentimenti, agitati e confusi, si erano scambiati di posto.

Poi ci fu un altro orrore inimmaginabile, di cui si era sentito raccontare solo nelle saghe: il mare divenne vivo.

Il mare si ritirava dalle spiagge, scurissimo sotto il cielo abbacinante. Si ritraeva per gonfiarsi più lontano, all’altezza della linea dell’orizzonte, come un enorme mollusco, un animale che si ripiega su se stesso per prepararsi all’attacco.

Ci fu uno schianto, e Kveld rotolò come una pietra, rotolò fra la pioggia nera che lo scottava e sulla neve che gelava le sue ustioni.

Si aggrappò a qualcosa che arrestò la sua caduta.

Solo l’antico cimitero vichingo sembrava immune dalla distruzione, fermo come una nave tirata in secco. Kveld si ritrovò rannicchiato contro la lapide di Egill Skallagrímsson.

Il suo destino era sepolto lì, scritto da sempre.

Il vascello che lo avrebbe portato lontano dall’isola natale.

Kveld scavò velocemente, e le sue dita raggiunsero la moneta, il suo talismano.

Ma c’era altro.

Con la schiena che gli bruciava per i lapilli di lava bollente e gli occhi pieni di neve, scavò e scavò, fino a portare alla superficie un piccolo baule di legno marcito, tenuto insieme da fasce di metallo.

L’oggetto contenuto al suo interno gli apparve come un lampo di luce riflessa dal cielo in tempesta.

Un’ascia corta, dalla lama di acciaio. Il manico, in legno nero lucidato a cera, recava un’iscrizione nell’islandese antico codificato dalla prima grammatica dell’isola:

Freya

Egill mi fece

I guerrieri chiamavano le loro armi con i nomi dei troll femmina, ed Egill aveva chiamato la sua ascia dispensatrice di morte con il nome della dea pagana dell’amore.

Kveld la impugnò saldamente nella mano sinistra.

Ci fu un boato assordante, accompagnato da un ruggito di pari intensità. Quando Kveld sollevò lo sguardo la terra e l’acqua stavano per scontrarsi. Un’onda marina nera, alta come dieci navi una sull’altra, stava per abbattersi sulla terra squarciata e sul torrente di lava che la riempiva.

Il villaggio, il faro, il cimitero cristiano erano scomparsi.

Kveld sentì che gli antichi vascelli sepolti e i cumuli di pietre erette dai suoi antenati lo proteggevano, unica isola incrollabile in un’isola nella mano della forza della distruzione.

Quelle navi costruite per percorrere ogni parte del mondo, rollando e beccheggiando sull’oceano, erano l’unica terra salda sotto i suoi piedi.

Il solo essere vivente oltre Kveld era la völva: in piedi sul promontorio nella neve macchiata dalla nera pioggia dei lapilli, la tonaca grigia gonfiata dal vento come una vela, le braccia scarne alzate e i bianchi capelli luccicanti come un’aureola, aspettava il mostro fatto d’acqua di mare, l’onda immensa del colore della notte.

Sorrideva.

Lei non poteva vederlo, ma a Kveld parve che gli sorridesse. Voleva dirgli qualcosa. Voleva dirgli che la morte poteva essere bella.

Sì, lei sapeva come morire. Da quando era nata aveva portato l’istante della sua morte dentro di sé, e questa era sempre stata la sua forza, l’aura invisibile che la separava e distingueva da ogni altro. Onorando lei, gli islandesi avevano onorato la morte. La bellezza della morte, che si fa amica e maestra.