Una volta, mentre si esercitava con l’ascia nella brughiera, si era imbattuto in suo padre. Kveld aveva alzato l’ascia sopra la testa in un gesto fiero per dimostrargli che non lo temeva, e che era infine diventato il demonio pagano che lui aveva cercato di vincere.
Suo padre aveva mosso un passo verso di lui, esitante. C’era un dubbio in quel passo incerto e nell’atteggiamento del corpo, una specie di fragilità. Come se riconoscesse che ora Kveld era il più forte, e lo amasse per questo. Era dunque possibile che Brian avesse amato suo figlio?
Kveld era sparito fra gli arbusti come uno spirito fatato, pieno di ribrezzo per quell’amore tardivo e malato. Poteva perdonare ai suoi genitori di averlo battuto, ingannato, trattato come uno straniero.
Poteva perdonarli anche se lo avevano ucciso, ma non poteva perdonare loro che lo avessero amato.
Da qualche tempo la völva non era più la stessa. Più silenziosa del solito, aveva cominciato col rifiutare di ricevere visite e di uscire dalla sua capanna, anche nelle giornate di bel tempo.
Kveld la nutriva con brodo di carne e la curava con ogni sorta di impiastri e pozioni la cui preparazione aveva appreso da lei, ma la donna rimaneva indifferente a queste attenzioni. Deperiva visibilmente di giorno in giorno, si faceva sempre più debole e ancora più distante di quanto mai era stata, se possibile. Non aveva nessuna malattia, ma si spegneva come un lume in un tempio. Non soffriva, ma aveva acquistato una sorta di grazia immateriale; era come un filo di fumo che sale verso l’alto.
«Non devi darti pena per me. Prima che sia finito questo giorno, non sarò più» disse durante una notte insonne a Kveld.
La völva aveva avuto una febbre leggera, e Kveld l’aveva vegliata. La notte era stata calma, ma all’alba aveva cominciato a piovere. La pioggia percuoteva la capanna con un rumore forte e regolare, isolandola nella sospensione che crea un fenomeno naturale, e di tanto in tanto una raffica di vento l’avvolgeva come se volesse sollevarla.
«Se è arrivato il tuo tempo, spero che il trapasso ti sia lieve» disse Kveld. «Tu entrerai in uno stato migliore, ma io provo pena per me stesso, che ti perderò e sarò ancora solo.»
«Tuttavia dovrai perdermi. Preparati, sta per arrivare l’Hekla.»
«L’Hekla? Dobbiamo avvertire la gente giù al villaggio.»
«È inutile. Anche se sopravvivessero all’Hekla, morirebbero durante l’inverno imminente, senza case e cibo. È meglio una morte rapida che una lunga agonia nella vana speranza di sopravvivere.»
Kveld la guardava con uno sgomento grande come l’eterno giorno dell’estate islandese.
«Sii forte, figlio. Io non proverò nessun dolore, e tu vivrai. Ricorda quello che ho detto sul tuo destino, è arrivato per te il momento di partire. Non puoi cambiare il corso degli eventi; anche se corressi al villaggio sarebbe troppo tardi.»
Come per confermare le parole della völva, una nuova terribile raffica di vento sembrò scuotere la capanna fin quasi al punto da farla crollare. Una gragnuola di sassi e terriccio colpì le pareti e il tetto. La pioggia aveva ceduto il posto a una di quelle tempeste di vento, neve e sabbia che talvolta flagellavano le coste dell’isola. Per quanto terribili, non sempre erano il preludio all’Hekla.
Ma la völva non sbagliava mai, e ogni sua previsione si era sempre rivelata esatta.
Kveld aprì la porta, forzando il vento che pareva un muro compatto. Il fuoco si spense. La völva non parlava più.
Fuori, il cielo era candido come un sudario e la neve nascondeva ogni cosa alla vista. Una scossa di terremoto, arrivando da nord-est, e da molto lontano, forse da qualche punto delle profondità infernali, dapprima sommessa e poi sempre più forte, scosse il suolo.
Kveld prese a correre verso il villaggio. Non temeva per la völva, che sapeva come vivere già molto tempo prima che lui nascesse, e sapeva sicuramente come morire. In cuor suo non metteva in dubbio le parole di lei, ma anche se la gente di Borg era condannata non resisteva all’umano desiderio di andare contro la volontà degli dei.
Kveld scese per il sentiero che conduceva a Borg, ma il vento e la neve gli rendevano l’avanzata quasi impossibile, e ogni passo gli era pesante, come se un gigante gli sbarrasse la strada. Non vedeva nulla.
Un’altra scossa di terremoto attraversò le rocce sotto i suoi piedi, seguita da un’altra, e un’altra ancora. Kveld cominciò a saltare e ballare su una terra che danzava la sua danza assassina.
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