Come già ci è accaduto in precedenza con il Botswana ricreato da McCall Smith, la nostra escursione noir in India non è guidata da uno scrittore autoctono, ma da un inglese giramondo, Paul Mann, che infine ha deciso di fermarsi negli USA e di scrivere una trilogia, dedicata al detective anglo-indiano George Sansi, di cui questo romanzo costituisce l’intrigante episodio iniziale.
L’azione si svolge a Bombay e l’autore non fatica certo a farci entrare in quell’autentico continente che è l’India con le sue mille contraddizioni: dove la spaventosa povertà di Mollaji, che sbarca il lunario arrangiandosi come può, ripescando magari per la polizia cadaveri ormai putrefatti, vive a pochi chilometri dai fasti di Film City, la Hollywood locale, in cui produttori e alti dirigenti non si fanno mancare nulla, neppure giovani e disinibiti prostituti; dove l’integrità morale del nostro ispettore è ostacolata in mille modi dalla corruzione imperante nel corpo di polizia e dalle ambizioni politiche del suo capo Jamal; dove un cadavere può scomparire senza lasciare traccia, a patto che il defunto in vita sia stato una nullità; ma dove un serial killer malato può colpire indisturbato perché lavora nel delicato settore delle forniture militari che “generosamente” il governo inglese concede all’affamata democrazia indiana.
È chiaro allora che l’indagine su persone uccise e poi mutilate orrendamente diventa un’inchiesta su un paese malato, disperatamente vitale e che può sopravvivere a tutto, ma che sembra non riuscire a entrare legittimamente nella modernità. Così i vari personaggi assumono il ruolo, più che di comprimari in una storia poliziesca, di un campione sociologico significativo dell’India di fine millennio: a partire dallo stesso Sansi, figlio dell’amore tra un ufficiale britannico, troppo legato ai suoi doveri familiari per abbandonare la moglie, e Pramila, un’affascinante vecchia signora, femminista ante litteram, docente universitaria, madre amorevole e talvolta ansiosa; c’è poi Annie Ginnaro, giovane giornalista americana in fuga da se stessa e dal fallimento del proprio matrimonio, che però comincia a integrarsi nella società indiana (e che, naturalmente, finirà per innamorarsi del nostro eroe dagli incredibili occhi azzurri); c’è la malavita organizzata, impersonata dai boss Kapoor e Bikaner, in lotta tra di loro e con le forze dell’ordine, lautamente pagate da entrambi; c’è il mondo luccicante ma terribile del cinema che con straordinaria e indifferente crudeltà stritola dirigenti importanti come Kilachand e comparse in cerca di notorietà come Nayak.
In questo caleidoscopio sociale George Sansi tenta di mettere ordine, stretto tra i dettami della sua coscienza, le pressioni politiche dall’alto, i piccoli compromessi che deve accettare per negoziare una pace coi boss; ma scoprire il colpevole – e questo accade diverse pagine prima della fine – non è il problema più importante: bisogna assicurarlo alla giustizia e questo – in India – è troppo spesso il risultato di una scommessa.
Il finale quindi è giocato sulla sfida tra il cacciatore e la preda e il lettore fino all’ultimo – pur conoscendo l’assassino – non può sapere chi tra i due avrà la meglio: e il colpo di scena finale conclude degnamente il romanzo che, con tutta probabilità, doveva rappresentare un “unicum”. Invece lo straordinario successo di vendita – ma, ripetiamo, è solo una nostra ipotesi – ha permesso all’ineffabile detective dagli occhi azzurri di tornare in pista per ben due volte.
In conclusione: noir inglese con tocchi di esotismo post-coloniale o noir autenticamente indiano?
Nel momento in cui la realtà sociale e politica di un paese è così ben penetrata fin nei suoi recessi più oscuri, conta fino a un certo punto la nazionalità dell’autore: Paul Mann, è questa la cosa più importante, ha scritto un autentico, intrigante e assai bel romanzo d’indagine indiano.
Tutto il resto non conta.
Voto: 7.5
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