Se ad un lettore degli ultimi settant’anni (o ad uno spettatore degli ultimi trenta) si chiedesse chi siano i Cimmeri, la risposta sarebbe istantanea: il popolo a cui appartiene Conan il Barbaro. La potenza creativa di Robert E. Howard ha cancellato 3000 anni di storia di un popolo... che in realtà nessuno ha mai saputo bene chi sia stato.
Se i misteriosi Cimmeri non hanno lasciato chiare tracce nella storia, hanno però segnato profondamente la letteratura, molto più di quanto si pensi. Ecco Un viaggio nella contea dei Cimmeri - prendendo in prestito il titolo del falso libro protagonista del thriller Codex (2004) di Lev Grossman - seguendo piste letterarie che porteranno a rivelazioni davvero sorprendenti.
Prologo. Una parentesi grammaticale
Gli abitanti della Cimmeria, nella lingua italiana, subiscono il triste destino di quegli sfortunati nomi che finiscono in “-io” non accentato: al plurale creano il panico.
Questi nomi necessiterebbero infatti di un segno grafico che nel plurale eviti fraintendimenti. È vero, al giorno d’oggi non è così necessario come un tempo distinguere i principi (plurale di principio) dai principi (plurale di principe), così come effettivamente capita di rado di dover distinguere i vari (plurale di vario) dai vari (plurale di varo), o gli odi (plurale di odio) dalle odi (plurale di ode): agli occhi moderni, infine, sembrerà un’assurdità stare a specificare se “demoni” sia il plurale di demonio o di demone...
Eppure c’è stata gente pignola, in passato, che credeva nella precisione e nella dignità di una lingua scritta ed ha sentito la necessità di contraddistinguere i plurali dei nomi in “-io”.
Nel corso dell’evoluzione della nostra martoriata lingua, dunque, si sono sviluppati ben tre metodi per scrivere questo plurale: a seconda della fonte e a seconda dell’epoca a cui risale, avremo così i Cimmerii, i Cimmerî e i Cimmerj; ci viene in aiuto un ulteriore quarto metodo nato dall’ignoranza... pardon, dall’evoluzione più moderna della lingua, in cui si semplifica fino ai minimi termini: abbiamo così... i Cimmeri, con una semplice “i” finale.
È innegabile la comodità di quest’ultima scrittura e quindi verrà adottata di seguito per evitare una lettura appesantita da accenti.
Parte prima. Il tramonto cimmero
Il primo a parlarci di questo popolo è Omero (primo a parlarci di tante cose!) nell’undicesimo libro dell’Odissea, datato fra l’800 e il 900 a.C. (datazione comunque da prendere con le molle). L’ottocentesca celebre traduzione di Ippolito Pindemonte così ci racconta: «Là ’ve la gente de’ Cimmerî alberga, / Cui nebbia e buio sempiterno involve. / Monti pel cielo stelleggiato, o scenda / Lo sfavillante d’ôr sole non guarda / Quegl’infelici popoli, che trista / Circonda ognor pernizïosa notte» (XI, 18-23). Una splendida traduzione in volgare fiorentino del 1582, curata da Girolamo Baccelli, così recita: «Ivi trovamo i Cimmerij e l’ombrosa / Lor Cittade, e a questi il vago Sole / Non mai dimostra aperti i raggi suoi / Lucido e chiaro [...] / Ma sempre oscura notte d’ogn’intorno, / Lui spande con l’ali humida l’ombra».
Dove sia esattamente questo «Là», questo «Ivi», dove cioè abiti la «gente de’ Cimmerî», non è chiaro, così come gli studiosi non concordano in generale su dove si svolga esattamente il viaggio di Odisseo. Ma l’importante è che il canone è creato, la leggenda nata, il topos letterario generato: i Cimmeri vivono tristi in una landa dominata da nebbia e buio costante.
Un’idea di dove questa triste gente abiti la otteniamo da Eschilo. Nella sua opera Prometeo incatenato (di controversa attribuzione e datazione, ma che comunque risale al V secolo a.C.), Prometeo dà delle indicazioni di viaggio ad Io: le dice di viaggiare «finché incontrerai le Amazzoni armate, nemiche del maschio. Questa gente, col tempo, fisserà la sua sede a Temiscira, là al Termodonte». La zona indicata è nell’attuale Turchia, proprio alla base del Mar Nero, e l’indicazione successiva, «Così arriverai alla lingua Cimmeria proprio alle bocche del lago», ci fa pensare che sia quella zona ad ospitare i Cimmeri.
Ce lo conferma, all’incirca nello stesso periodo, il famoso storico Erodoto che, nelle sue Storie, cita più e più volte i Cimmeri come invasori, costretti a spostarsi a causa delle pressioni degli Sciti, a loro volta mossi dalle pressioni dei Massageti. D’altronde questa è sempre stata una dinamica tipica dell’Asia: masse di popolazioni si spostavano in continuazione, premute da altre popolazioni.
Erodoto, nel primo libro, dice che i Cimmeri occuparono tutta Sardi, città situata nell’attuale Turchia proprio davanti allo Stretto dei Dardanelli. Ma va ricordato che quando Erodoto scrive i Cimmeri non esistono più, quindi lo storico sta solo riportando le informazioni di seconda mano che è riuscito a recuperare.
Nel quarto libro, infatti, lo storico greco (che, lo ricordiamo, era natio di Alicarnasso, città dell’odierna Turchia non molto lontana da Sardi) racconta le varie storie di cui è venuto a conoscenza sulla fine del popolo di Cimmeria. Quella più incredibile risulta sicuramente l’ultima raccontata, dove la popolazione, davanti all’imminente invasione degli Sciti, fugge di gran carriera, mentre i nobili e reggenti preferiscono togliersi la vita in loco. Gli invasori quindi occuparono una città fantasma: alla faccia dei rudi guerrieri!
«E ancora oggi in Scizia - chiude Erodoto - ci sono le Mura Cimmerie e il varco Cimmerio, una regione si chiama Cimmeria, e c’è il cosiddetto Bosforo Cimmerio. Ed è chiaro che i Cimmeri, fuggendo in Asia davanti agli Sciti, colonizzarono la penisoletta su cui ora sorge la greca città di Sinope.» Il tragitto pare dunque chiaro: da Sardi a Sinope, i Cimmeri non hanno fatto altro che percorrere le coste dell’odierna Turchia che si affacciano sul Mar Nero.
Ribadendo il fatto che Erodoto sta dando informazioni di seconda mano, possiamo comunque affermare che c’è buona probabilità che i nostri Cimmeri siano stati abitatori delle coste del Mar Nero.
Ce lo conferma, con un incredibile salto temporale, l’Indicatore, ossia raccolta periodica di scelti articoli (1837) che, fonti latine e greche alla mano, ricostruisce la storia dei Cimmeri.
Questi erano in origine dei Galli, ma una lunga separazione valse loro un nome diverso: i Cimri. Sì, quelli che oggi chiamiamo Cimbri erano un popolo nomade che i Greci «per eufonia» chiamavano Cimerii. Le tribù estreme di questo popolo nomade «scorrevano le rive del Tanai e della Palude Meotide [l’odierno Mar d’Azov, n.d.r.]. Avevano però cominciato ad introdursi fra i Cimri i costumi sedentarj; le tribù del Chersoneso Taurico [l’odierna Crimea, n.d.r.] fabbricavano città e coltivavano terre (Strabone, XI, chiama “Kimmericum” una delle loro città. Scimno le dà nome di “Kimmeris”); ma i più conservavano con passione le abitudini d’avventure e di ladroneccio». Ecco, l’immagine dei cimmeri “ladronecci” si adatta di più al personaggio di Conan il Cimmero piuttosto che i racconti di fuggitivi scomposti dati da Erodoto.
Nell’XI secolo a.C. le invasioni dei Cimmeri, o Cimri, si fanno pressanti, e nascono leggende in tuta l’Asia Minore. «La credenza religiosa de’ Greci poneva il regno delle ombre e l’entrata degli inferni presso alla Palude Meotide [l’odierno Mar d’Azov, n.d.r.], sul territorio appunto occupato dai Cimri: onde l’immaginazione popolare, associando queste due idee di terrore, fece della razza cimmeria una razza infernale antropofaga, irresistibile e implacabile come la morte, di cui abitava i luoghi.»
Ecco che l’immagine omerica dei Cimmeri associati al triste buio mortale si comincia a far sentire...
La notte cimmera
Ricordiamo le parole di Ippolito Pindemonte: i Cimmeri vivono in una terra che «trista / Circonda ognor pernizïosa notte». Fonti storiche li vedevano abitare in luoghi associati agli inferi greci e leggende ioniche dell’Asia Minore li consideravano popoli antropofagi e “affini” alla morte di cui abitavano i luoghi.
Tutte queste immagini non potevano non colpire letterari e poeti di ogni èra.
Nell’8 d.C., Ovidio inserisce i Cimmeri nella sua opera Le metamorfosi, dandone una descrizione di grande effetto. «Dove stanno i Cimmeri c’è una spelonca dai profondi recessi, una montagna cava, dimora occulta del pigro Sonno, nella quale con i suoi raggi, all’alba, al culmine o al tramonto, mai può penetrare il sole: dal suolo, in un chiarore incerto di crepuscolo, salgono senza posa nebbie e foschie. Qui non c’è uccello dal capo crestato che vegli e chiami col suo canto l’aurora».
Immagini tali non potevano non attraversare tutto il Medioevo senza diventare paradigma!
Nel 1585 troviamo Giordano Bruno che, nel quarto dialogo del suo De gli eroici furori parla di «oscuritadi Cimmerie», e che ne Il terzo cieco così si esprime: «O sott’ il ciel de la cimmeria gente, / Onde lungi suoi rai il sol diffonde».
Poco dopo (1593 circa) è la volta del Tito Andronico shakespeariano, in cui il personaggio di Bassiano così si esprime parlando del negro Aronne: «Il tuo nero Cimmerio, / tinge l’onore tuo, imperatrice».
Saltiamo al Settecento e troviamo un’egloga delle Rime (1731) del Benedetto Menzini: «Per me ben tosto il più sereno giorno, / Qual per Cimmeria notte, si contrista.» Ne Il giorno (1763) di Giuseppe Parini abbiamo: «E coll’indice destro lieve lieve / Sovra gli occhi trascorri, e ne dilegua / Quel che riman de la Cimmeria nebbia».
È ufficiale: al di là delle questioni storico-geografiche, la Cimmeria diviene sostantivo ed aggettivo che indica buio profondo, nonché nebbia. La «notte cimmeria» (nelle parole di Stanislao Canovai, 1780) è una forte immagine poetica a tutti gli effetti, che non si esaurisce certo nel ’700.
Gli inizi dell’Ottocento vedono niente meno Johan Wolfgang von Goethe usare per il suo Faust (1808) il termine «notte cimmeria»; mentre nel 1813 il Riccardetto di Forteguerri (Niccolò Carteromaco) così riporta: «Colà, dove per nebbia il Sol s’annulla, / Dico ne la Cimmeria... »
John Keats, nel quarto libro dell’Endimione (1817), si riferisce all’«abisso cimmerio»; il nostrano Massimo D’Azeglio, nel nono capitolo dei Racconti, leggende e ricordi della vita italiana (1857), racconta: «feci un giro a Cormayeur per il San Bernardo [...] mi pareva d’esser finito come Ulisse nel paese de’ Cimmeri». Il poeta francese Arthur Rimbaud, nell’Alchimia del verbo di Una stagione all’inferno (1873), parlando della propria salute in pericolo, così si esprime: «la mia debolezza mi conduceva ai confini del mondo e della Cimmeria, patria dell’ombra e dei vortici».
Gli inizi del Novecento non sono da meno. La novella Dopo (1910) di Edith Wharton usa ancora espressioni figlie dei secoli precedenti: «L’assolato pomeriggio inglese lo aveva inghiottito più che se fosse uscito nella notte cimmeria». Così come il colto e letterato Philo Vance, protagonista de La canarina assassinata (1927) di S.S. Van Dine, si esprime con espressioni dal sapore di altre epoche: «Sto vagando fra le tenebre della mia mente, così vuote di segnalazioni come gli spazi interplanetari. La mia oscurità mentale è egizia, stigia, cimmeria...»
Ma tutto cambia, quel dicembre del 1932...
In quella data, infatti, la rivista statunitense “Weird Tales” pubblica un racconto dal titolo La fenice sulla lama, firmato da Robert E. Howard. Il personaggio della storia è un muscoloso e scontroso barbaro di nome Conan, originario... della Cimmeria!
Howard è divenuto in seguito famoso come autore fantasy, ma in realtà era un fine e più che attento studioso di storia. Per il suo mondo fantastico, ambientato in una immaginaria Era Hyboriana, usò il nome Cimmeria non a caso, descrivendola infatti come i poeti e letterati suoi predecessori avevano fatto. Disegnò cartine immaginarie di questa terra, è vero, ma le caratteristiche peculiari non mutarono. Nel Colosso nero (1933) Howard parla di questa terra descrivendola così: «si trattava di un paese montuoso, selvaggio e aspro, che si trovava lontano, nel Nord, oltre l’ultimo avamposto delle nazioni hyboriane, ed era abitato da una razza feroce e lunatica». In realtà non molto altro viene detto della Cimmeria, visto che Conan vive le sue avventure ben lontano da questa, ma il nome divenne comunque famoso nell’ambiente letterario fantasy.
Per esempio, Avram Davidson ne La fenice e lo specchio (1969) parla di un mantello «filato, tessuto, tagliato e cucito nell’iperborea terra di Cimmeria e là tinto con il colore senza nome che era più scuro del nero»; oppure Philip José Farmer che, nel suo Il labirinto magico (1980) descrive «una colossale cimmeria dai capelli rossi».
Questo non vuol dire che altri autori non continuassero ad usare la versione “originale” del termine, ad usare cioè l’aggettivo “cimmero” e il nome “Cimmeria” per indicare il buio fitto. Seabury Quinn, in Moscacieca (1949), racconta che «le tenebre, totali ed impenetrabili come l’oscurità perenne della Cimmeria, si chiusero su di lui come un cappuccio». Umberto Eco, ne Il nome della rosa (1980), usa l’espressione: «come se di colpo fosse ripiombato nelle nebbie cimmerie», così come l’anno successivo, ne La diceria dell’untore, Gesualdo Bufalino usa l’espressione «Fredda, colore del peltro, era la strada, e camminarci su e giù era come confondersi ombra fra le ombre di un paese cimmerio». Ancora Umberto Eco, ne La misteriosa fiamma della Regina Loana (2004), dice: «Sono carcerato nel mio isolamento cimmerio, in questo feroce egotismo».
La notte cimmeria, quindi, dura da duemila anni, e sono poeti e narratori d’ogni levatura a portarla avanti.
Il Mezzogiorno cimmero
I Cimmeri, abbiamo visto, abitarono le coste del Mar Nero, tanto che il nome dell’odierna Crimea deriva appunto da Cimmeria. Ce lo confermano storici come Erodoto, i quali però, come abbiamo detto, riportano storie di seconda mano... ed esistono altre storie sui Cimmeri da riportare.
Nel 1744 Giovambattista Vico, nell’undicesimo capitolo del suo Principj di scienza nuova, fa una giusta osservazione: «non è credibile che Ulisse, mandato da Circe senz’alcun incantesimo [...] in un giorno fusse andato da’ cimmeri i quali restarono così detti a vedere l’inferno, e nello stesso giorno fusse ritornato da quella in Circei, ora detto Monte Circello, che non è molto distante da Cuma». Se la Cimmeria, che per il mondo di Odisseo/Ulisse è l’entrata agli Inferi, si trova nel Mar Nero, il viaggio affrontato dal protagonista è in effetti incredibile: ha attraversato mezzo Mediterraneo in un giorno!
Vico quindi avanza un’ipotesi: «i cimmeri ebbero le notti più lunghe sopra tutti i popoli della Grecia, perch’erano posti nel di lei più alto settentrione, e perciò, per le loro lunghe notti, furono detti abitare presso l’inferno (de’ quali poi si portò lontanissimo il nome a’ popoli abitatori della palude Meotide [l’odierno Mar d’Azov, n.d.r.]): e quindi i cumani, perch’eran posti presso la grotta della Sibilla, che portava all’inferno, per la creduta somiglianza di sito dovettero dirsi “cimmeri”».
Che quindi i Cimmeri, oltre le coste del Mar Nero, abbiano abitato anche il Mezzogiorno italiano?
Già nel primo secolo a.C. il famoso geografo Strabone lo dava per certo: nel quinto libro della sua Geografia addirittura non cita minimamente i luoghi del Mar Nero. Anch’egli, per sua stessa ammissione, riporta storie di seconda mano, ma storie diverse da quelle di Erodoto.
Egli racconta che le storie narrate nell’undicesimo libro dell’Odissea si svolgono tutte nelle zone intorno all’Averno, che era sì uno dei nomi greci per indicare l’inferno, ma era (ed è!) anche un grande lago campano vicino Cuma, città dove si trovava la vaticinante Sibilla detta appunto Cumana. Le parole di Strabone sono chiarissime: «L’Averno è chiuso tutt’intorno da ripide alture, che dominano da ogni parte ad eccezione dell’entrata del golfo. [...] un tempo erano coperte da una foresta di grandi alberi, selvaggia, impenetrabile e tale da rendere ombroso il golfo, favorendo così la superstizione. Gli abitanti del luogo favoleggiavano che anche gli uccelli che vi passano sopra in volo cadono nell’acqua, colpiti dalle esalazioni che si levano da questo luogo, come avviene alle Porte degli Inferi.»
Più chiaro di così: la zona dell’Averno campano ha tutte le qualità della Cimmeria descritta da altri storici nel Mar Nero! Come se non bastasse, la parola Averno in greco significa “privo di uccelli”, a suggellare la superstizione, e come parlò Ovidio della Cimmeria nelle sue Metamorfosi? «Qui non c’è uccello dal capo crestato che vegli e chiami col suo canto l’aurora».
Continua Strabone: gli antichi ritenevano «che questo luogo fosse una Porta agli Inferi e vi localizzavano le leggende dei Cimmerî; entravano qui navigando quelli che avevano offerto sacrifici e fatto suppliche agli dèi infernali e c’erano sacerdoti che davano indicazioni in proposito e che avevano appunto quest’incombenza sul luogo. C’è poi lì una fonte di acqua fluviale sulla riva del mare: tutti se ne astenevano, ritenendola acqua dello Stige.» A suffragio delle sue parole, l’autore cita altri storici precedenti a lui: «Eforo, che localizza qui i Cimmerî, dice che essi abitavano in dimore sotterranee chiamate “argille”, che si incontravano fra loro attraverso gallerie sotterranee e conducevano gli stranieri alla sede dell’oracolo, situato sotto terra, molto in profondità. Essi vivevano dei proventi derivati dallo sfruttamento delle miniere».
Non c’è che dire: i Cimmeri campani non hanno nulla da invidiare a quelli balcanici... che siano imparentati fra di loro?
Ai tempi in cui Strabone racconta queste vicende, intorno al primo secolo avanti Cristo, l’Averno Cimmero non esiste più, così come non esistono più i Cimmeri: gli ingenti lavori di “ristrutturazione” voluti da Menenio Agrippa hanno reso quelle terre più abitabili. Ma c’è un testimone d’eccezione, su cui si basa Strabone: Lucio Cocceio Aucto, colui che eseguì gran parte dei lavori voluti da Agrippa nella zona e che, ben conscio delle leggende sui Cimmeri, volle sincerarsi di persona sulla veridicità di dette leggende. Egli riuscì a ricostruire, infatti, la galleria che collegava l’Averno a Cuma, quella galleria che probabilmente usò Odisseo per passare dalla grotta della Sibilla alla terra dei Cimmeri: sicuramente un viaggio più breve che recarsi da quei Cimmeri sulle coste del Mar Nero.
Oggi dei “Cimmeri campani” ci si interessa poco. Quei rari testi che citano il popolo, ne parlano solo come di abitanti del Mar Nero; eppure basta prendere un Dizionario universale della lingua italiana del 1828 per trovare questa definizione assolutamente esaustiva: «Cimmèria. geog. ant. Città d’Italia, nella Campania, sul lago d’Averno, non lungi da Baja e da Pozzuolo. I suoi abitanti, detti Cimmerj, s’impiegavano a scavare le miniere. Gli antichi Greci, immaginandosi che questo paese fosse sempre coperto di tenebre (idea per avventura nata dall’esser Baja e Pozzuolo luoghi bassi ed oscuri, circondati da tutte le bande da alte montagne, che impediscono di vedere il sorgere ed il tramontare del sole), lo posero a’ confini dell’inferno; ed è perciò che i poeti pongono in questa regione lo Stige, il Flegetonte, e tutti gli altri fiumi infernali».
Conclusione
In chiusura torna l’interrogativo: i Cimmeri campani - che sicuramente non parlavano napoletano, come abbiamo maliziosamente insinuato nel titolo di questo articolo! - erano imparentati con i Cimmeri balcanici? Erodoto non cita minimamente i primi; Strabone ignora i secondi. Sappiamo che erano un popolo nomade: possibile che si spostò unicamente intorno alle coste del Mar Nero e non prese altre direzioni, che magari li avrebbero portati nel Mezzogiorno italiano?
Una risposta definitiva, ovviamente, non la si può trovare. Ma un trait d’union fra i due popoli, un’ipotesi accettabile, arriva da una voce solitaria: quella di Giuseppe Sanchez e del suo La Campania sotterranea (1833). Ecco il testo che può considerarsi una plausibile risposta all’interrogativo dato: «Samuele Bochart ci dimostra non solo che i primi popoli della Campania si chiamassero Cimmerii, ma che questo loro nome fosse di origine fenicia, e significasse “intenebrito” (Sam. Bochart, Geographia sacra, lib. I, cap. 33, col. 591). Ma questi Trogloditi, conosciuti sotto l’appellazione di Cimmerii, soggiornarono anche in altre contrade. Di certo non è di mestieri allegare autorità per essere notizia volgare, che Cimmerii furono detti tutti gli abitatori delle grotte, e che quei popoli i quali stanziarono intorno al Bosforo-cimmerio anche tal nome portarono di Cimmerii e Cimbri. Essi ebbero questa denominazione, non per altra ragione se non perché aveano case sotterra, o erano discesi da quella razza che le aveano costruite e abitate.»
Non è la prima volta che popoli stranieri con abitudini simili vengono chiamati allo stesso modo: valga per tutti il nome Normanni, che non vuol dir altro che “uomini del Nord” e che venne usato per indicare popolazioni anche molto differenti fra loro.
Salutiamo dunque tutti «quegl’infelici popoli» che, nel corso della Storia, hanno vissuto in terre tristi, fra le nebbie fitte e la «pernizïosa notte», ai cui piedi «giacciono alla rinfusa le chimere dei Sogni»: salutiamo nei cimmeri più un aggettivo qualificativo che un nome proprio.
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