Come se l’oscurità, la notte, fosse la materia di cui sono fatti.
Sono dei giganti: tutti alti non meno di un metro e novanta e grossi, molto forti.
Si muovono in modo strano, come automi o come si immagina che si muoverebbero le ombre staccate dai corpi.
E c’è qualcosa di irreale e di orribile nei loro movimenti, un orrore esaltato dal dondolio, dalla posizione capovolta, dallo stordimento.
Prima di svenire nuovamente, Kira vede gli uomini neri stringersi intorno alla donna polacca, che urla di terrore.
La sollevano come una bambola di stracci, la spingono, la prendono a pugni. Sul ventre gravido.
Lei cade e continuano a colpirla, stavolta con i calci.
Le urla della poveretta si fanno sempre più strazianti, mentre la rialzano per picchiarla ancora, e poi la rigettano a terra per calpestarla, con ritmo regolare e allucinante.
E di nuovo in piedi, semisvenuta, con il sangue che le cola lungo le gambe. Le sue urla sono diventate gemiti cupi.
Da qualche parte, molto vicino, Kira sente una voce, non maschile e non femminile, priva di accenti. Neutra, come se provenisse dal nulla, e ancora più raggelante, per la sua arcana immaterialità. Canta con una cadenza di ninna nanna una vecchia filastrocca italiana.
Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Se lo do all’uomo nero,
se lo tiene un anno intero.
Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo lo terrò
questo bimboooo... looo... terròòòòò...
La donna polacca abortisce un feto di quattro mesi.
Gli uomini neri lo raccolgono e lo posano su una roccia piatta e rialzata in mezzo alla radura, come un altare naturale preparato per un sacrificio umano.
Quando Kira riesce a riaversi, l’incendio ha raggiunto la radura e l’albero al quale è appesa.
Le fiamme fanno crollare il ramo a cui è fissato il laccio.
Kira si scioglie dalle corde bruciate, accorre presso la donna polacca: morta, gli occhi sbarrati, le mani contratte sul ventre come in un estremo gesto di protezione verso il suo ultimo figlio. Morta per le percosse, o per un collasso dovuto all’aborto procurato in quel modo, o entrambe le cose.
Kira è circondata dagli uomini neri.
Neri contro il muro di fiamme alle loro spalle, confusi fra i tronchi anneriti.
Kira estrae la sua Walther e spara contro gli uomini neri. I proiettili, se li raggiungono, sembrano attraversarli, come se fossero fantasmi.
Kira scioglie la frusta che teneva avvolta intorno ai fianchi.
Gli uomini neri avanzano, si stringono intorno a lei.
Kira ne colpisce uno con la frusta.
Al volto che somiglia a un vuoto nero.
Quello non accusa il colpo, e continua ad avanzare come se non fosse neppure stato sfiorato.
Ma ecco, c’è un movimento diverso.
Gli uomini neri cominciano ad arretrare, mentre Kira avverte qualcuno dietro di sé.
Si volta, e punta il pugnale alla gola della presenza alle sue spalle: l’SS-Sturmbannführer Bor, seguito dai suoi uomini.
Gli uomini neri si gettano fra le fiamme, come se fossero invulnerabili. Scompaiono.
Kira vorrebbe inseguirli, ma con le SS ci sono i bambini.
- Chi sono? - grida all’SS-Sturmbannführer.
- Non lo sappiamo. Vieni, presto. Rischiamo di restare intrappolati in questa foresta.
- E il bambino più piccolo? Quello che sono andata a cercare?
- Non mancava nessun bambino. Non li hai contati con esattezza, solo perché un soldato aveva deposto a terra una piccola peste che gli tirava calci.
È Vaslav che li ha condotti alla radura. Ed è Vaslav a conoscere i sentieri per uscire dalla foresta. Deve aver pensato spesso all’evasione, e studiato i percorsi durante le rare passeggiate all’aperto.
Le SS, Kira e i bambini raggiungono il camion sulla strada, che li condurrà al confine.
Ma anche quando è in Germania, al sicuro, cullata dal motore e dalle lievi scosse del camion in marcia, Kira non trova riposo.
Continua a pensare.
Agli uomini neri.
Alla strana voce che cantava quella ninna nanna.
E a un particolare inspiegabile.
L’embrione umano insanguinato sull’altare di pietra.
Era lì, dopo che lei aveva constatato la morte della madre.
Ma, quando si è girata un’ultima volta verso l’altare prima di abbandonare la radura, non c’era più.
© 2012 Mondadori
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