Il G8 di Genova è una delle pagine cupe della storia del nostro Paese. Passati più di dieci anni, una ferita che avrebbe dovuto essere esito di una chirurgia della manipolazione dell’opinione pubblica resta una lacerazione aperta e un crimine senza colpevoli. Nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, nella scuola intitolata ad Armando Diaz s’è consumato un vero e proprio atto di guerra che Amnesty International ha definito come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda mondiale”.
Daniele Vicari si affida alle carte processuali e compone una pellicola che ha il taglio di un documentario e il ritmo di un film dell’orrore. Scelta azzeccata, perché di orrore reale si parla e perché calcare troppo sulle costruzioni della fiction – intreccio, protagonisti e antagonisti – poteva rendere Diaz un film manicheo: ovvero un utile spunto per impedirgli di emergere da un mare di polemiche comunque inevitabili. Tutto quello che avrebbero dovuto fare dialoghi e caratterizzazione dei personaggi, qui lo fa il montaggio, aiutato da una regia all’altezza ed efficace.
La dose di violenza che cola dallo schermo è davvero massiccia, e risulta fuori luogo lamentarsene, sia perché non è mai – in nessuna sequenza – finalizzata al solo shock dello spettatore, sia perché, visto l’argomento, non sarebbe stato giusto uscire dalla sala con l’anima in pace. La storia del G8 lascia poco spazio alle sottigliezze.
Il cinema d’impegno è tornato? Difficile dirlo quanto è facile sperarlo. Resta il fatto che di Diaz ce n’era bisogno. Qualcuno l’ha girato e, in fin dei conti, neanche male.
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