«Another brick in the wall» cantavano i Pink Floyd: un’altra “breccia” nel muro. È vero, non è questa la traduzione esatta e l’espressione si usa per indicare qualcosa di solido, ma curiosamente il mattone inglese (brick) ha la stessa radice da cui l’italiano “breccia”. Proveniente dalle antiche lingue germaniche, è una parola che indica una parte spezzata, separata da un qualcosa più grande: il brick inglese indica la parte, la breccia italiana indica il vuoto che ha lasciato nel venir separata.
Cosa c’entra tutto questo con la Festa del Libro e della Lettura “Libri Come”, svoltasi il mese scorso a Roma? La risposta la si trova in una delle sale che hanno accolto l’evento, dove è visibile un’imponente installazione concepita da Alicia Martín: una enorme parete di mattoni con una breccia composta da una montagna di libri. I volumi che si fondono con i mattoni spezzati lasciano interdetti: sono i libri che hanno spezzato il muro, o è il muro di libri che viene spezzato ogni giorno di più?
Nella splendida cornice dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, struttura d’eccellenza del mondo musicale della capitale, dall’8 all’11 marzo scorsi si è svolta la terza edizione di questo evento dedicato al mondo del libro e della lettura: in una città come Roma questa iniziativa annuale è una ventata d’aria fresca.
Accoglie il pubblico un libro titanico posto sul piazzale, con scritti fra le sue pagine tutti gli eventi della manifestazione. Il visitatore lo ammira e si prepara a gustarsi una parata “di libri e di lettura”, come gli promette il logo dell’evento.
Comincia a camminare in cerca della “parata”, ma oltre a ragazzini che giocano a pallone e alla folla che ha invaso il bar, formando code incredibili, non sembra esserci vita nella zona. Fra rumore di mascelle e squilli di cellulari il visitatore si chiede dove siano tutti questi libri promessi, poi per fortuna un gentilissimo addetto alla sicurezza indica una porticina che dà in una catacomba: quello è lo spazio riservato a “Libri Come”.
L’angusto abitacolo - forse un omaggio alle catacombe di quei primi cristiani grazie ai quali è attecchita la “tecnologia” del libro contro quella del rotolo di papiro? - si rivela subito uno spazio accogliente e deliziosamente arredato. L’atmosfera è calda e fa ben sperare.
Dalle pareti ammiccano le gigantografie che compongono l’esposizione Bookshelfporn. Le foto di Zach Schrock guidano il curioso nella “pornografia per amanti di libri” e d’un tratto ci si ritrova calati in piena bibliofilia che, come tutte le filìe, è una perversione intima. Il fotografo apparentemente ritrae libri su scaffali con a volte qualche simpatico “effetto speciale”, ma il bibliofilo - l’amante vizioso di libri - coglie l’aspetto pornografico: quello non è amore per il contenuto dei libri, bensì pruriginosa attrazione materiale per ciò che li contiene. I libri sono lì a mostrarsi senza veli o pudori, senza moralismi o catalogazioni; si lasciano toccare da mani curiose, si lasciano frugare da sconosciuti e impilare in posizioni d’ogni sorta. Non sono libri da leggere o amare, sono libri da spogliare... pardon, sfogliare.
Con i sensi offuscati dall’amore osceno per le copertine dei libri - non per il loro contenuto - il visitatore lascia la “pornografia libraria” di Schrock pronto a lanciarsi nel cuore della manifestazione, a spogliarsi cioè dell’amore mercenario per la carta per elevarsi all’amore intellettuale per ciò che in essa è stato scritto. Scoprendo un’antica verità: l’editoria non è lì a parlar d’amore, ma a vendere libri...
In tre sale della struttura si tengono a raffica e contemporaneamente presentazioni di piccola e media editoria, conferenze che danno la possibilità ad autori - a volte emergenti, a volte conosciuti - di avere un rapporto stretto con il pubblico e di far conoscere la propria opera. Questo forse nelle intenzioni, ma in realtà tutto avviene tranne questo.
Le tre sale in questione sono sommerse di tecnologia d’ogni tipo - cavi d’ogni razza, colore e dimensione, display di vari gradi di luminosità, altoparlanti, prolunghe, trasformatori, spine inserite o in attesa di inserimento - ma è ovvio, si dice il visitatore: senza tecnologia il messaggio non arriva a molte persone. (Curiosamente è proprio per far arrivare il messaggio a più persone che è stata inventata la tecnologia del libro, quel libro che gli illuminati vogliono proteggere dalla tecnologia che gli consentirebbe di raggiungere ancora più persone, quel libro che pubblicizzano usando la tecnologia...)
Il flusso sconnesso dei pensieri è interrotto dal costante rumore di fondo dell’universo contemporaneo: lo squillo del cellulare. Pronto? Sono a Libri Come? Come? Sì, a Libri Come. No, non posso parlare. (Ossimorica follia gridare al cellulare che non si può parlare!) Nel ronzio perenne di vibrazioni e squilli, di gente che vuole comunicare il fatto di non poter comunicare - o di non avere assolutamente nulla da comunicare (Pronto? Che fai? Niente, sono qui) - arriva l’autore portando la calcificazione di se stesso fra le mani: il suo libro. Scavalca un nido di vipere (in realtà i cavi dell’installazione audio-video) e cerca spazio su un tavolo ingombro di microfoni, altri cavi, spine e spinotti: al centro della barbara tecnologia pone il suo monolito nero... il suo libro di carta. Fra un netbook e un notebook, finalmente un book.
Si comincia a parlare del libro in una stanza priva di libri, fra gente che non ha libri in mano né in borsa - ma, statene certi, ha almeno due o tre cellulari che squilleranno senza sosta - in una struttura dove ci sono più libri nelle foto alle pareti che esposti; in una struttura che sciaborda di volantini gratuiti che parlano di libri ma di pochissimi libri (a pagamento); in una struttura che appende alle pareti splendidi ritratti di scrittori firmati da Tommaso Pincio, autori talmente famosi da stupirsi quando una signora esalta a voce alta la bellezza di Kafka e poi si chiede «Non conosco questo Ballard» (Signora mia, cos’ha letto negli ultimi cinquant’anni?). In un tempio del libro assente, del libro anzi negato, dove gli autori si guardano appesi al muro e i libri (senza titolo) si ammucchiano in oscene e conturbanti foto di scaffali, cosa mai può comunicare un autore al pubblico? O meglio, cos’altro può comunicare rispetto a ciò che presumibilmente ha fatto tramite la tecnologia del libro stampato?
Il pubblico è attento e interessato, gli autori appassionati e molto comunicativi; il personale è gentile e disponibile; gli orari sono rispettati e il tutto è organizzato in modo impeccabile. Cosa stona? La filosofia di fondo: che diamine ci facciamo tutti qui?
Tanto noi spettatori quanto l’autore fino a qualche ora prima di “Libri Come” eravamo davanti ad uno schermo (PC, netbook, notebook, iPhone o qualsiasi altra piattaforma) a comunicare fra di noi, secondo i nostri ritmi e i nostri gusti; poi ci siamo alzati, ci siamo messi la tecnologia in tasca, abbiamo affrontato un viaggio per arrivare all’Auditorium Parco della Musica, ci siamo riseduti, l’autore ha cominciato a dire le stesse cose che qualche ora prima stava dicendo on line, noi abbiamo tirato fuori la tecnologia che fino a qualche ora prima avevamo in casa, e abbiamo continuato a comunicare. Qualcuno ha ripreso gli interventi con videocamera e iPhone, addirittura un autore, per citare un brano di un libro che ha letto, ha tirato fuori il suo palmare e ha cominciato a leggere da una foto scattata ad un libro aperto. Questa è la Festa della Tecnologia, non del Libro, ma attenzione: non è una critica, è la constatazione che la breccia nel muro del libro si amplierà sempre di più se non si prenderà atto che il desiderio di fondo è comunicare, non vendere carta ai perversi bibliofili! (Anche chi scrive è un perverso bibliofilo, ma è anche un amante disponibile ad altre forme di comunicazione).
È un discorso sbagliato, penseranno molti, ma la realtà è disinteressata alla correttezza: usiamo la tecnologia per comunicarci a distanza e dirci che il rapporto stretto è insostituibile, così come scriviamo in digitale che il cartaceo è insostituibile.
Secondo molti - allergici a quella tecnologia di cui invece amano circondarsi - solo il libro cartaceo può veicolare un messaggio. Eppure a “Libri Come” erano assenti libri cartacei: c’erano iPhone, iPad (in vendita nei BibletStore della Telecom), netbook, palmari e ogni altra sorta di tecnologia. Gli unici libri cartacei erano quelli scritti dagli autori delle conferenze e quelli utilizzati nella citata opera d’arte di Alicia Martín.
La breccia si allarga e l’editoria sta cercando di vendere le briciole e le breccole (parole entrambi derivanti dalla stessa radice di brick) senza occuparsi, od occupandosi ben poco, di ricostruire la parete. Ci pensano i lettori, questi bricconcelli (idem come sopra), a ricostruirsi ognuno la parete che preferisce: chi vuole comunicare non ha bisogno di convegni, come dimostrato dal fatto che durante i detti convegni grandi fette del pubblico comunicava con altri tramite cellulare. Eventi e manifestazioni sono per l’amore mercenario, per vendere carta a bibliofili che pagano per sfogliare con mani scabrose le pagine nude con lascivia. (Come chi scrive, che ha comprato, ha toccato, ha sfogliato, ma non ha letto nulla! Ci sarà tempo, dopo, per l’amore della lettura.)
Chi non crede al caso amerà sapere che la libreria dell’Auditorium aveva in vendita il geniale Anima e iPad di Maurizio Ferraris. Il filosofo torinese, certamente in controtendenza, non vede affatto la fine dell’editoria: lucidamente ne testimonia la trasformazione. Già ora la tavola, il pad, la naturale materializzazione della tabula come simbolo della mente, permette ai lettori bricconi di colmare la breccia nella parete (anch’essa tavola, anche se verticale) dell’editoria cartacea. Ci sarà sempre carta da sfogliare, ma chi legge vuole leggere sempre di più e soprattutto è disposto anche a rinunciare a parte del contenitore in cambio di più contenuti.
Gli editori in gamba dovrebbero capire che ciò che loro possono offrire è la qualità del contenuto, indipendentemente dal contenitore. E che non dovrebbero lavorare solo per gli amanti della carta, ma anche per i lettori (e non sempre sono le stesse persone).
L’eterno Franco Farinelli ci racconta che quando Cristoforo Colombo tornò dal suo viaggio la Terra, da sferica che era, divenne piatta: il navigatore l’aveva adattata ad una mappa, e da allora il mondo che noi conosciamo è piatto. Perché piatta è la tabula della nostra mente, dove scriviamo e cancelliamo, inseriamo e collezioniamo come sull’iPad, che è una tavola piatta. È un gioco divertente leggere un libro tridimensionale (le cui pagine però sono piatte), ma ciò che ricordiamo lo ricordiamo piatto. Come l’autore di cui si parlava prima, che ha letto da uno schermo piatto di un palmare piatto la foto piatta di una pagina piatta di un libro tridimensionale; come le foto porno-librarie di Zach Schrock, che rendono piatte perversioni bibliofile tridimensionali; come i ritratti di Tommaso Pincio, che rendono piatti autori in carne e ossa; come piatto è lo schermo delle videocamere attraverso il quale alcuni spettatori hanno assistito alle conferenze.
Se dunque “Libri Come” ha dimostrato qualcosa, è che il mondo è sempre più piatto: sta agli editori capire che l’unico oggetto tridimensionale dell’evento erano le rovine librarie della Martín, fuse ai mattoni infranti; ma capire anche che i mattoni non solo solo macerie, bensì elementi per costruire un futuro diverso.
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