Frutto di una storpiatura grammaticale (“polisse” anziché “police”), il film della regista francese Maiwenn Le Besco (nonché co-protagonista nel ruolo di una fotografa “embedded” alla Brigade de Protection des Mineurs, la Squadra di protezione dei minori parigina), è tutto fuorché storpio.
Molti hanno visto in Polisse solo e soltanto un riuscito episodio pilota per una serie televisiva su quanto sia complicata la vita di chi lotta ogni giorno contro i crimini più turpi, quelli cioè che coinvolgono i minori, dai maltrattamenti ai veri e propri abusi sessuali, ma basta buttarci uno sguardo sopra per capire che così non è. A parte la non trascurabile considerazione che difficilmente in TV certi contenuti passerebbero intatti, Polisse ha dalla sua tutta la forza delle storie che sanno imporsi senza barare né sulle emozioni né tantomeno sulle storie dalle quali le emozioni derivano. Macchina a mano “buttata” sempre esattamente al centro della mischia, sia se c’è da salvare un minore, sia se ci si “scazza” tra colleghi o magari tra coniugi perché hai voglia a tentare di separare il lavoro dalla vita privata tanto è pacifico che la prima finirà sempre col rimbalzare nella seconda, e non basta nemmeno quell’unico istante di comicità che stempera per un istante la tensione (ebbene sì, si può anche ridere di una sprovveduta adolescente che fa un… pur di recuperare il cellulare…) per rimettere le cose a posto.
Cast superlativo che alla fine genera un dubbio: trattasi di veri poliziotti o attori?
Maiwenn a due facce: come regista è da battaglia mentre come interprete della fotografa che osserva il lavoro altrui rasenta quasi l’invisibilità.
Piccola scivolata nel finale, ma non nella preparazione dell’evento quanto nell’”esecuzione” (un ralenti fuori luogo…)
Confessione: in alcuni momenti sembra che da un momento all’altro debba saltar fuori 'Papà' Doyle, venuto a vedere come se la cavano i suoi discendenti.
Gran Premio della Giuria al 64° Festival di Cannes.
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