Carla Palmieri è una preziosa traduttrice della casa editrice Einaudi, per la quale ha tradotto autori come Nancy Horan (Mio amato Frank), Scott Lasser (Un anno dopo), Zachary Lazar (Sway), Margaret Elphinstone (La notte del raduno) e tanti altri.
Ha partecipato alla traduzione di opere di saggistica, come Marketing per professionisti di Philip Kotler, Le origini della società dell’informazione di James R. Beniger, Il futuro della popolazione cinese di Jean Claude Chesnais.
Recentemente per Einaudi ha curato la traduzione di Morte di un’assassina di Rupert Thomson.
Quand’è che hai deciso di diventare una traduttrice? E, se non l’hai deciso, come ti ci sei trovata in mezzo?
L’ho deciso quand’ero ancora all’università. Sapevo fin dall’inizio di non voler insegnare, né lavorare in un ufficio o cose del genere. Adoravo la letteratura e la poesia, mi piaceva scrivere, sapevo di avere una piccola dose di quello che un tempo si sarebbe chiamato “temperamento artistico” e di essere al tempo stesso una persona pratica. Insomma, tradurre era il mestiere ideale per me: una forma di artigianato, a metà tra l’arte e il lavoro manuale.
Secondo te è più faticoso tradurre un romanzo o scriverlo?
Scriverlo, senza dubbio. Uno scrittore inventa dal nulla, un traduttore “riproduce” nel migliore dei modi possibili un testo che c’è già.
Se hai tradotto da più lingue, quale secondo te è più “confortevole” nel passaggio all’italiano?
Traduco quasi esclusivamente dall’inglese, e ho pochissima esperienza di traduzione da altre lingue. Ho fatto qualcosina dal francese, che forse è più simile all’italiano sul piano sintattico, ma presenta problemi di altra natura.
Ti è capitato di tradurre un autore che proprio non sopporti?
No, mai.
Il testo che più ti ha fatto ammattire a tradurre? E quello che invece più ti ha divertito?
Ai tempi in cui traducevo saggistica, un testo sulle banche islamiche (Islam e finanza. Religione musulmana e sistema bancario nel sudest asiatico, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli) è stato un osso duro, soprattutto perché all’epoca (1991, o giù di lì) il World Wide Web era appena nato, e non era per niente facile documentarsi su un argomento così specialistico. Il testo più divertente... Be’, forse 11 di Mark Watson. Una storia leggera, ben concepita, con dialoghi vivi e buon ritmo. L’autore è uno “standup comedian”, e leggendo si capisce che sa tener viva l’attenzione del pubblico, anche se il testo non è esattamente comico.
C’è stato qualche romanzo (o saggio) che, traducendolo, hai avuto una gran voglia di aver scritto tu?
Non avendo ambizioni di scrittrice in proprio, non mi è mai venuto da pensare “Acc, se l’avessi scritto io!”. D’altro canto, se un testo narrativo ti piace molto, o se per qualche ragione “ti parla”, tradurlo... è quasi... come scriverlo. Come ha detto splendidamente Susanna Basso, «Quando siedo davanti alle parole di un autore e ascolto la sua scrittura declinare una voce che non mi appartiene, io so che solo con l’invidia saprò sorvegliare il testo dell’altro mentre si fa mio.» (Susanna Basso, Sul tradurre, Bruno Mondadori, Milano 2010, p. 17). L’invidia del traduttore non è un sentimento malevolo: è un’invidia dell’originale, in virtù della quale ogni traduzione «non può che offrirsi al testo come desiderio del testo, inarrivabile traguardo e punto di partenza del mestiere» (Ibid., p. 21).
Tutto ciò è bellissimo, ma intendiamoci: nell’ordinaria pratica professionale di un’umile traduttrice dall’inglese quale sono io, capita raramente. In Italia, come sai, si traduce molta narrativa anglosassone, e non può certo essere tutta Letteratura. Una volta, però, mi è capitato di provare esattamente questo tipo di invidia (vedi la risposta all’ultima domanda), ed è stata una gran bella esperienza.
Ti è mai capitato di aver voglia di “aggiustare” qualche passaggio mal scritto? Secondo te un bravo traduttore aggiusta o lascia così com’è?
Mi è capitato (raramente) di rimediare a certe inesattezze fattuali. Ad esempio, in un romanzo americano ambientato ai primi del Novecento, un cameriere italiano di un bar di Firenze diceva - in italiano nel testo - «Non c’è problema»: nell’edizione italiana di quel romanzo il cameriere dice «Come desidera, signore», perché l’espressione scelta dall’autore, oltre che brutta, era insopportabilmente anacronistica. Per il resto, credo che le scelte stilistiche dell’autore vadano rispettate. Di passaggi mal scritti, onestamente, non ne ricordo. Un testo potrà sembrarmi noioso o banale, ma oggigiorno tutto ciò che si pubblica viene sottoposto a editing: se lo stampano, vuol dire che il livello qualitativo è perlomeno medio. Certo, non sarà Letteratura con la L maiuscola, ma almeno onesta narrativa di consumo...
La traduzione cine-televisiva ha dei limiti (tempistica, ritmo, labiale degli attori, ecc.): c’è un corrispettivo di questi limiti in quella cartacea (come per esempio il numero di pagine del libro finito)? E se sì, quanto possono influire questi limiti sul lavoro di traduzione?
Se per tempistica intendiamo il rispetto della scadenza data dall’editore, ovviamente si tratta di un elemento determinante (se hai un mese o sei mesi per tradurre un testo, la faccenda cambia eccome!); se parliamo del tempo che ci vorrebbe a pronunciare, ad esempio, la stessa battuta di un dialogo nelle due lingue, il vincolo è certamente meno rigido che nel doppiaggio (e se ci poniamo nell’ambito dell’inglese questo è un bene, perché lo sanno tutti che l’inglese è pieno di monosillabi...). In un testo scritto la tempistica diventa soprattutto questione di ritmo: e il ritmo delle frasi, il “respiro” di un testo, andrebbe rispettato il più possibile anche nella lingua di arrivo, perché (soprattutto nella buona letteratura) può essere un elemento essenziale.
Per finire, qual è il libro (o la serie di libri) di cui vai più fiera di aver curato la traduzione?
Senza dubbio Union Atlantic, di Adam Haslett: un romanzo bellissimo e importante che ho tradotto con grande passione, esattamente con quell’invidia di cui parla Susanna Basso.
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