Grande estimatore e conoscitore della cultura e letteratura nipponiche, Massimo Soumarè ha curato non solo traduzioni ma anche antologie e saggi sulla letteratura giapponese.
È ancora in edicola l’Urania di gennaio Onryo, avatar di morte, che lo vede nella tripla veste di curatore, traduttore e autore.
Quand’è che hai deciso di diventare un traduttore? E, se non l’hai deciso, come ti ci sei trovato in mezzo?
Ho iniziato facendo traduzioni tecniche e commerciali e ho proseguito così per circa dieci anni. Nel frattempo, ho continuato ad ampliare le mie conoscenze del giapponese dedicandomi anche ad approfondire lo studio della lingua classica, dei dialetti, della letteratura e via dicendo. Poi, circa dal 2000, sono arrivate una serie di occasioni, da prima più sporadiche e poi sempre più frequenti, che mi hanno permesso di dedicarmi alla traduzione letteraria. Ho cominciato, tramite amici, a entrare in contatto con alcuni scrittori nipponici e questo si è rivelato molto utile per i progetti che ho curato in seguito.
Secondo te è più faticoso tradurre un romanzo o scriverlo?
Sono due cose differenti.
Per la traduzione si segue un percorso narrativo già creato dallo scrittore, quindi non occorre inventare nulla. Ci si deve però concentrare con attenzione sul rendere parole, frasi e concetti nella propria lingua, compito tutt’altro che semplice. Occorre anche un certo talento per la scrittura.
D’altro canto, scrivere un romanzo vuol dire sedersi davanti ad un foglio bianco e doverlo riempire pagina dopo pagina. Si è indubbiamente liberi di seguire la propria vena creativa, ma questo vuol dire non poter contare su nulla di predefinito e che le linee guida della storia sono completamente da creare.
A mio parere, il livello di fatica è pressappoco uguale.
Puoi parlarci di quale tipo di difficoltà affronta un traduttore nel passaggio dal giapponese all’italiano?
Riprendo qui semplificandola l’idea sulla traduzione dal giapponese all’italiano espressa in due miei saggi editi sulla rivista LN-LibriNuovi n. 36 e n. 38 e che ho esposto anche alla Nippon 2007 Worldcon tenutasi a Yokohama.
È possibile suddividere la traduzione dalle varie lingue in un sistema composto di tre gruppi. Il primo, che possiamo definire globale, comprende quelle lingue che hanno una diffusione sul pianeta tanto ampia da poter affermare che sono comprensibili - seppure in alcuni casi limitatamente a un ristretto numero di persone - in quasi tutte le nazioni. In questa fascia, attualmente, è collocabile solo l’inglese in quanto unico linguaggio in grado di soddisfare sufficientemente la suddetta condizione. Un secondo gruppo è formato da quelle lingue che sono parlate in un determinato numero di paesi oppure anche in un’unica nazione la quale abbia tuttavia un numero di abitanti considerevole dal punto di vista demografico mondiale (è il caso della Cina). Si tratta di lingue a diffusione media. In questo gruppo si trovano, ad esempio, il francese e lo spagnolo. Il terzo include quelle lingue che sono parlate in una sola nazione composta di una popolazione con un numero relativamente piccolo d’abitanti come l’italiano, il coreano o il giapponese. Possiamo chiamarle lingue a diffusione ridotta. Ovviamente una tale divisione è puramente teorica e non sostiene assolutamente la supremazia di una lingua sull’altra, piuttosto, l’utilità di questa classificazione consiste nel rendere facilmente comprensibile i rapporti generali delle traduzioni dei testi da una lingua all’altra.
L’inglese si trova in una posizione particolare. Essendo parlato e compreso da un gran numero d’individui, è naturale che ci siano molti manuali e studi inerenti ai metodi per tradurlo in maniera ottimale nelle lingue del secondo e del terzo gruppo. Sono poi particolarmente numerosi i testi concernenti la traduzione dall’inglese in altre lingue europee. Certo il motivo di ciò va ricercato nelle comuni affinità strutturali. Al contrario, più sono lontani tra loro i paesi tra cui viene effettuata la traduzione e maggiormente i suddetti manuali paiono perdere valore ed efficacia divenendo le forme grammaticali e le logiche strutturali sempre più aliene tra loro. Questo porta il traduttore ad aumentare il suo apporto “creativo” individuale in mondo da colmare il divario.
Il presupposto «lingua A <distanza geografica> lingua B» si può perciò trasformare nella definizione «maggiore distanza geografica > aumentano le differenze linguistiche > necessità di un intervento più incisivo del traduttore».
La scrittrice Masako Bandô in un’intervista-dibattito uscita sulla rivista LN-LibriNuovi n. 34 ha affermato che «per i giapponesi, passato, presente e futuro coesistono in un insieme indefinito. Ritengo che il nostro punto di vista si focalizzi sul momento attuale. Ciò vale anche per me. Quando inizio a osservare un avvenimento oppure concentro la mia attenzione su un pensiero o una consapevolezza non vedo che essa. I giapponesi non sono capaci d’osservare estesamente ciò che sta loro intorno e analizzarlo oggettivamente. Tutto scorre sempre in una direzione soggettiva. Questo concentrarsi su di un unico punto tende a eludere passato e futuro dando forma a un modulo descrittivo profondamente legato al presente».
È quindi evidente come in presenza di due linguaggi geograficamente e concettualmente distanti tra loro quali l’italiano e il giapponese il traduttore debba intervenire maggiormente sul testo per dargli una forma soddisfacente per i lettori. Diventa perciò un elemento importante ed essenziale non solo il suo livello di profondità della conoscenza della lingua e cultura nipponica, ma pure la sua abilità nello scrivere.
Ti è capitato di tradurre un autore che proprio non sopporti?
Non ancora. Nella maggior parte dei miei progetti editoriali ho potuto scegliere opere e autori da contattare.
Il testo che più ti ha fatto ammattire a tradurre? E quello che invece più ti ha divertito?
Il più difficile? Forse le raccolte poetiche di Michizô Tachihara incluse nel volume Come vena d’acqua edito da Edizioni Empirìa nel 2004. Lì ho dovuto anche curare parte dell’impaginazione dato che si trattava di un’edizione con testo a fronte. Tradurre la poesia riuscendo a lasciare il più possibile intatto ciò che il poeta voleva esprimere trovo sia una delle cose maggiormente complesse da realizzare.
Quanto alla seconda domanda, per me tradurre è un divertimento, anche se a volte può trasformarsi in un autentico tormento... Risolvere problemi che si presentano sempre in modo diverso e cercare di rendere al meglio le atmosfere e le sensazioni dell’opera originale è una sfida entusiasmante, perciò direi che non c’è un testo che mi abbia divertito più di un altro. Lo sono stati tutti, anche se in modo diverso.
C’è stato qualche romanzo (o saggio) che, traducendolo, hai avuto una gran voglia di aver scritto tu?
No. Ci sono parecchi romanzi o saggi di cui ho invidiato l’abilità degli autori, ma non ho mai pensato che sarebbe stato bello se li avessi scritti io.
Ti è mai capitato di aver voglia di “aggiustare” qualche passaggio mal scritto? Secondo te un bravo traduttore aggiusta o lascia così com’è?
Sinceramente, non mi pare di aver mai avuto una simile voglia. Anche perché i giapponesi sono piuttosto puntigliosi nella fase di editing ed è molto raro trovare passaggi mal scritti. Al massimo, può capitare di trovare qualche refuso.
Ritengo sia importante rispettare quanto scritto dagli autori. Il compito del traduttore è rendere il testo scorrevole e naturale nella propria lingua mantenendone il senso originale. Finché si rimane in quest’ambito certo è possibile giocare rendendo, per dire, un passaggio più scorrevole in italiano, ma non ritengo che stravolgerlo completamente sia una buona cosa. Allora meglio dedicarsi a scrivere lavori propri.
La traduzione cine-televisiva ha dei limiti (tempistica, ritmo, labiale degli attori, ecc.): c’è un corrispettivo di questi limiti in quella cartacea (come per esempio il numero di pagine del libro finito)? E se sì, quanto possono influire questi limiti sul lavoro di traduzione?
Penso che per qualsiasi traduttore ed anche per i lettori l’ideale sarebbe avere sempre una traduzione integrale dell’opera. Ed è quella che in genere fanno i traduttori. In realtà, tuttavia, la questione dipende da fattori esterni. Soprattutto per i grandi editori capita che nei contratti stipulati con gli scrittori esteri sia inclusa la clausola (motivata, ad esempio, dalla necessità di dover eliminare parti che potrebbero urtare la sensibilità dei lettori) che implica la possibilità di ridurre a discrezione di una certa percentuale le pagine del romanzo originale. Ci sono poi collane che debbono avere un numero massimo di pagine e, se un libro in originale è maggiormente voluminoso, può venire tagliato fino a raggiungere la lunghezza necessaria. Non a tutti gli autori questo piace, soprattutto nel caso di quelli famosi, e quindi può succedere che tale contratto non venga firmato o possa essere modificato.
In Giappone recentemente c’è una certa tendenza a pubblicare romanzi voluminosi da cinquecento o seicento pagine. Questo sia perché i lettori giapponesi preferiscono i libri corposi sia perché volumi di questa grandezza sono molto più visibili nelle librerie. Ciò però li rende molto meno appetibili e facilmente collocabili nel mercato italiano.
Per finire, qual è il libro (o la serie di libri) di cui vai più fiero di aver curato la traduzione?
Difficile da rispondere. Ciascuno dei libri di cui ho curato la traduzione rappresenta qualcosa di speciale per me.
Ad esempio, Onryo, avatar di morte ha richiesto quattro anni di attesa per me pieni di ricordi (anche se il volume la cui preparazione è stata più lunga in assoluto è il mio testo storico sull’antico Giappone Japan in Five Ancient Chinese Chronicles - Wo, the Land of Yamatai, and Queen Himiko edito negli USA nel 2009 dalla Kurodahan Press per la cui pubblicazione sono occorsi ben nove anni!).
Sono estremamente fiero della serie di antologie ALIA iniziata nel 2003 composta di dieci volumi di cui sei con racconti di scrittori giapponesi anche perché, a tutt’oggi, è la più ampia collezione europea di racconti del fantastico giapponese contemporaneo.
Probabilmente il libro di cui sono maggiormente orgoglioso è però Foglie multicolori. Racconti dal Sol Levante pubblicato ugualmente ad ALIA dalla CS_ libri di Torino nel 2010. Diciotto racconti tra i quali uno vincitore del Premio letterario Yasunari Kawabata e uno del Premio Naoki (uno dei due massimi riconoscimenti letterari giapponesi) di quindici tra i maggiori autori nipponici di oggi (molti dei quali presentati nel nostro paese per la prima volta), è un assaggio a trecentosessanta gradi dei vari generi letterari del Sol Levante. Credo che a suo modo sia un’antologia davvero unica e un’ottima occasione per i lettori di comprendere l’ampiezza e la varietà della letteratura nipponica. Persino i giapponesi sono rimasti stupiti, dato che nemmeno loro sono ancora riusciti a realizzare un’antologia che riunisca insieme scrittori di filoni letterari tanto diversi.
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