La polizia ringrazia, pellicola del 1972 diretta dal regista Stefano Vanzina (noto al grande pubblico con lo pseudonimo di Steno), è generalmente ritenuto il capostipite del cosiddetto filone “poliziottesco”. Se lo si debba realmente considerare tale, è un quesito che da molti anni appassionati e cultori del genere si pongono, senza riuscire a darsi una risposta definitiva.
Il motivo del dilemma, probabilmente, è da ricercarsi nella complessa evoluzione che il cinema poliziesco italiano ha subìto nel decennio in cui riuscì a monopolizzare il mercato nazionale (con rare sortite all’estero) sostituendo lo “spaghetti western” e spopolando nelle sale cinematografiche in coabitazione con la famigerata “commedia scollacciata” dei vari Banfi, Vitali e Montagnani.
L’opinione più accreditata tra gli esperti del genere (che personalmente condivido in pieno) è che il film di Vanzina abbia di fatto costituito una sorta di punto d’incontro fra diverse tematiche e suggestioni provenienti da pellicole precedenti di eterogeneo valore artistico, favorendo una prima, parziale “codificazione” di un futuro genere che negli anni a seguire avrebbe registrato un così importante riscontro di pubblico (e quasi mai di critica).
Il grande successo commerciale (un miliardo e settecentocinquanta milioni di incassi, vero e proprio record per l’epoca) fece sì che, dopo essere stato punto di convergenza di generi, a sua volta La polizia ringrazia diventasse nuovo punto di partenza per una esplosione di sottofiloni, tutti accomunabili al poliziottesco ma ciascuno con ben specifiche caratteristiche dominanti.
Da notare che il film fu il primo ad essere firmato da Vanzina con il suo vero nome (dopo oltre vent’anni di onorata carriera). Accadde solo un’altra volta, due anni dopo, per Anastasia, mio fratello, commedia amara sulla mafia italoamericana con protagonista un Alberto Sordi in abito talare. La scelta di Vanzina fu motivata dall’intenzione di non ingenerare equivoci nel pubblico, avendo in passato diretto e co-diretto (spesso come aiuto regista di Mario Monicelli) esclusivamente commedie, molte delle quali avevano avuto per protagonista il principe Antonio De Curtis, in arte Totò.
La polizia ringrazia narra le vicende del commissario Bertone (interpretato dallo scomparso Enrico Maria Salerno, all’epoca quarantaseienne), strana figura di poliziotto in bilico fra atteggiamento progressista e esternazioni reazionarie. La parte del protagonista fu originariamente offerta a Lando Buzzanca che rifiutò a causa di precedenti impegni. Bertone è un personaggio disilluso e crepuscolare che se da un lato combatte la malavita con pugno di ferro, lamentandosi frequentemente dell’atteggiamento troppo accomodante della magistratura, dall’altro non esita a schierarsi contro una sedicente “anonima anticrimine” che pretende di fare giustizia sommaria dei criminali rimasti impuniti a causa di insufficienza di prove o del ricorso a cavilli legali.
Questa tematica anticipa quella di numerosi successivi film, anche stranieri, a partire da Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan del 1973, di Ted Post, fino a Condannato a morte per mancanza di indizi del 1983 di Peter Hyams, passando per quel Roma violenta del 1975, di Franco Martinelli, che assegna il primo ruolo da protagonista in un poliziottesco all’attore Maurizio Merli che verrà in seguito consacrato come la più popolare e amata icona del genere.
Dopo aver focalizzato uno dei temi anticipati dal film di Vanzina, più volte ripresi nei poliziotteschi del decennio successivo, facciamo un passo indietro ricordando alcune fra le pellicole precedenti a La polizia ringrazia, ascrivibili nella categoria di quelle che contribuirono (spesso inconsapevolmente) a dar vita al genere.
Primo fra tutti, voglio citare Banditi a Milano del 1969, di Carlo Lizzani, vero e proprio istant movie realizzato a pochi mesi di distanza da un fatto di cronaca che sconvolse l’Italia, ovvero la caccia della polizia alla banda Cavallaro, dopo la sanguinosa rapina al Banco di Napoli di largo Zandonai a Milano.
Se uno dei punti di forza del poliziesco all’italiana fu quello di aver dato voce a un diffuso sentimento popolare di impotenza e di volontà di ribellione nei confronti di una criminalità dilagante (e, all’apparenza, incontrastata dallo Stato), è anche vero che il risvolto della medaglia è la situazione di assoluta confusione e instabilità nella quale venne a trovarsi il paese, allorché, alle porte degli anni Settanta, fu ormai chiaro che il sogno del boom economico si era rivelato una illusione, destinata a trasformarsi, in seguito, nel vero e proprio incubo dei cosiddetti “anni di piombo”.
Fra lotta di classe, agitazione del movimento studentesco, acutizzarsi degli scontri fra fazioni politiche estremiste, Banditi a Milano fotografa la realtà di una intera generazione allo sbando che non trova altra via se non quella di dedicarsi al crimine, come risposta al crollo delle proprie aspirazioni e delle proprie aspettative di vita futura. Senza nessuna giustificazione né compiacimento, Lizzani, opera nel film la lucida analisi di una situazione oggettivamente complessa nella quale venne a trovarsi il nostro Paese, scegliendo di raccontarne le conseguenze piuttosto che di analizzarne le cause. In Banditi a Milano troviamo anche un giovane Tomas Milian in una delle prime (se non la prima in assoluto) figure di commissario di ferro che la cinematografia italiana ricordi. L’attore di origini cubane, negli anni successivi, diverrà il caratterista più ricorrente nelle pellicole di genere poliziottesco (così come lo era stato nello “spaghetti western”) interpretando ruoli da criminale o da poliziotto con estrema versatilità.
Se non può essere considerato a tutti gli effetti un precursore del poliziottesco, Banditi a Milano può sicuramente essere ricordato come uno dei “padri nobili” del genere, quantomeno dal punto di vista socio-culturale, anche per aver dato una risposta anticipata allo scenario di fondo di guerra aperta tra criminalità e istituzioni al quale decine e decine di pellicole successive ci avrebbero abituati.
Un altro film fondamentale per l’evoluzione dell’iconografia criminale delle metropoli italiane, è Milano Calibro 9 di Fernando Di Leo, uscito lo stesso anno di La polizia ringrazia con due sole settimane di anticipo. Il film è un vero e proprio capolavoro noir che riprende il nome da una raccolta di racconti di Giorgio Scerbanenco, ispirandosi ad alcuni di essi (Stazione centrale, ammazzare subito, Vietato essere felici e La vendetta è il miglior perdono).
Anche in questo film, sono presenti alcune caratteristiche che saranno in seguito riprese e sviluppate dal filone poliziottesco. Prima fra tutte, la rappresentazione cupa e malinconica di certi ambienti della malavita nostrana e l’esplosione improvvisa di una violenza cieca e sanguinaria alternata a sequenze più intimiste e statiche (una modalità ripresa anche da registi “cult” quali Quentin Tarantino e Robert Rodriguez che non hanno mai fatto mistero di trarre forte ispirazione dal cinema italiano degli anni ’70).
Il film costituisce, insieme a La mala ordina dello stesso anno e Il boss del 1973, la cosiddetta “trilogia del milieu”, firmata dal regista pugliese scomparso nel 2003. In La mala ordina possiamo assistere ad alcune delle sequenze d’azione migliori mai girate nel nostro Paese, frutto dell’inventiva e della professionalità di tecnici e stunt-man nostrani dei quali, negli anni, il bagaglio tecnico è andato irrimediabilmente perduto. Ciò si avverte facilmente assistendo alle patetiche sequenze di azione delle fiction poliziesche prodotte attualmente in Italia.
Un’altra caratteristica comune ai poliziotteschi cronologicamente successivi a La polizia ringrazia è quella della figura del cosiddetto “commissario di ferro”, un poliziotto che alle pulsioni reazionarie dell’archetipo Bertone, interpretato da un Enrico Maria Salerno con parrucchino e tutt’altro che in forma, accomuna la prestanza fisica alla propensione all’uso delle armi e delle scazzottate, nel combattere in prima persona i criminali con metodi a dir poco “spicci”.
Luc Merenda, Claudio Cassinelli, Franco Gasparri, Tomas Milian e, sopratutto, il già citato, compianto Maurizio Merli (scomparso prematuramente nel 1989 a soli quarantanove anni) furono le icone del genere che impazzarono per anni sulle strade delle metropoli italiane, impegnati in rocamboleschi inseguimenti a bordo delle “mitiche” Alfa Romeo Giulietta, ma anche a piedi, sui tetti, a bordo di treni e metropolitane in corsa, dentro supermercati affollati, col sottofondo di incalzanti colonne sonore realizzate da abili musicisti nostrani.
Se cerchiamo l’origine del fattore di spettacolarità, che senza dubbio costituisce uno dei punti di forza nel successo commerciale del genere poliziottesco, non possiamo di certo far riferimento alla pellicola di Stefano Vanzina, abbastanza lontana dal poter essere definita un “film d’azione”. Ed ecco, allora, che per risalire alla prima, esplicita rappresentazione cinematografica del commissario di ferro, con tutte le caratteristiche del genere poi divenute uno standard (grilletto facile, mano pesante, vita sentimentale complicata, carattere vagamente misogino e al di sopra delle righe, insofferenza nei confronti dei superiori) dobbiamo andare avanti di un anno per arrivare a quello che Federico Patrizi ed Emanuele Cotumaccio, nel saggio Italia calibro nove considerano, a ragione, un capostipite del genere poliziottesco, alla pari con La polizia ringrazia.
Stiamo parlando di La polizia incrimina, la legge assolve del 1973, di Enzo G. Castellari.
Nella pellicola, curiosamente ambientata a Genova, troviamo il commissario Belli (interpretato da Franco Nero con tanto di capelli e baffi biondi) che si inserisce nella guerra tra due bande di narcotrafficanti, scoprendo insospettabili collusioni dei malviventi con alcuni potenti locali. Alla fine riuscirà a fare giustizia, ma il prezzo che sarà costretto a pagare risulterà altissimo.
Il film non è esattamente un capolavoro, ma riveste un’importanza fondamentale per il genere.
Tanto per chiarire fino a che punto possa essere definito un archetipo, basti pensare che Maurizio Merli, nel suo celeberrimo Roma violenta, fu costretto a tingersi i capelli di biondo e a farsi crescere i baffi, proprio per risultare simile al commissario Belli di Franco Nero del quale, tra l’altro, ereditò un nome quasi identico (Betti).
E proprio Roma violenta, del 1975, di Franco Martinelli, fu il maggior successo commerciale del cinema poliziesco all’italiana con due miliardi e settecento milioni di incasso, quattro mesi ininterrotti di programmazione a Roma e definitivo inizio dell’epoca d’oro del genere. Merli impersonò il commissario Betti in altri due film, Napoli violenta e Italia a mano armata. In quest’ultimo lungometraggio, il personaggio venne fatto morire, nell’ultima scena, dal regista Franco Martinelli che, in questo modo, volle vendicarsi della produzione che gli aveva negato la regia del secondo episodio, ambientato a Napoli, facendolo dirigere da Umberto Lenzi.
Italia a mano armata, tra l’altro, è un cult assoluto fra gli amanti del genere anche per essere l’unico poliziottesco interpretato da Maurizio Merli a non avere mai avuto una versione in DVD, a causa di una questione irrisolta di diritti di pubblicazione.
Oltre che nella “trilogia del commissario Betti”, Maurizio Merli vestirà i panni del commissario di ferro in almeno altre dieci pellicole. L’attore tenterà inutilmente, nel corso della sua carriera, di percorrere strade diverse interpretando (con scarsi risultati) film che risultarono dei veri e propri fallimenti al botteghino. Pare che, proprio prima di morire, Merli stesse per accettare di ricalarsi nel ruolo che gli aveva dato, in passato, successo e popolarità. Ma, a causa dell’infarto che lo stroncò prematuramente, durante una partita di tennis, il cupo e pessimista Poliziotto, solitudine e rabbia, del 1980, del veterano Stelvio Massi, resterà la sua ultima interpretazione di un’icona rimasta impressa in maniera indelebile nell’immaginario collettivo di un decennio del cinema italiano.
C’è un altro elemento che caratterizzò la seconda metà di vita di buona parte del cinema poliziesco all’italiana e del quale non ritroviamo la benché minima traccia nel presunto “capostipite” La polizia ringrazia. Si tratta dell’aspetto comico-grottesco di taluni personaggi-macchietta.
Laddove, nel film di Vanzina, Enrico Maria Salerno risulta essere fin troppo malinconico nell’interpretazione del combattuto commissario Bertone, a partire dal 1976, con l’uscita dei due film Squadra antiscippo e Roma a mano armata nasce la nuova prassi di inserire nella sceneggiatura un personaggio dai tratti caricaturali, dalla parlata romanesca e la battuta facile.
Inizia, dunque, l’èra del “Monnezza”, criminale dai modi spicci e dal cuore tenero dedito allo sproloquio in dialetto romanesco, nonché della sua incarnazione speculare “Nico il pirata”, al secolo Maresciallo Nico Giraldi.
Così come la pesante introduzione di elementi caricaturali sancì il rapido declino e la definitiva morte del genere spaghetti western (con l’avvento dei vari Provvidenza, Trinità et simili) allo stesso modo, in maniera meno immediata ma ugualmente inesorabile, lo slittamento delle trame poliziesche verso la vera e propria parodia di se stesse, innescò l’inevitabile autodistruzione di un genere che era stato capace di tenere banco per oltre un decennio.
Del resto, nei primi anni Ottanta, in Italia, si respirava un’aria diversa rispetto a pochi anni prima. L’onda lunga dell’“edonismo Reganiano” unita alla presunta sconfitta del terrorismo e a una illusoria nuova fase di crescita economica, mal si conciliavano con la rabbia del cittadino che sognava di ribellarsi attraverso un catartico “transfert” nel burbero commissario di turno, gonfiando di cazzotti o crivellando di piombo il malcapitato criminale trovatosi ad incrociargli la strada.
A partire dal 1976, l’attore Tomas Milian (che già aveva interpretato innumerevoli pellicole di genere poliziottesco) inaugura con il già citato Squadra antiscippo di Bruno Corbucci, il ciclo del maresciallo Nico Giraldi che, con ben undici titoli nell’arco di otto anni (tutti diretti dal regista romano, fratello del più noto Sergio), disegnerà una immaginaria parabola destinata a concludersi con il pessimo Delitto al Blue Gay del 1984, vero e proprio emblematico canto del cigno di un genere che aveva ormai completamente perso ogni contatto con se stesso.
Parlare di Milian e dell’evoluzione del suo personaggio richiederebbe ben altri spazi. Mi limiterò a sottolineare che, se nelle prime due pellicole della serie, ovvero Squadra antiscippo e Squadra antifurto (entrambe del 1976) sono ancora presenti molti degli elementi e degli schemi narrativi che costituirono l’ossatura portante del genere poliziottesco, già dal successivo Squadra antitruffa (del 1977) si avverte una spaccatura con le ambientazioni metropolitane e lo scenario sociale di contorno, tipici dei titoli che avevano fatto la fortuna del genere. Persino la violenza e l’azione appaiono più caricaturali, più edulcorate in una rappresentazione quasi catalogabile come “politically correct”.
Ciò nulla tolse al successo commerciale del film che gli sceneggiatori avevano astutamente e comprensibilmente calibrato sui mutati gusti del pubblico.
Il personaggio di Nico Giraldi, in realtà, è direttamente derivato da quello di “Er Monnezza”, delinquente di mezza tacca fratello di quel “Gobbo” (sempre interpretato da Milian) che aveva costituito la nemesi del commissario Tanzi (Maurizio Merli) nel famoso Roma a mano armata del 1976, di Umberto Lenzi, poi seguìto da La banda del gobbo del 1978, dello stesso regista.
Il “Monnezza” sarà l’interprete di tre film (con qualche incongruenza nella continuity del personaggio) prima di lanciare definitivamente il campo alla sua incarnazione “positiva”, il Maresciallo Giraldi detto “il pirata”.
La prova che, nel corso degli undici film, l’aspetto poliziottesco andò inesorabilmente perdendosi a favore di quello parodistico, sta nel fatto che, parallelamente al ciclo di pellicole dirette da Bruno Corbucci, Milian girò numerose commedie, interpretando personaggi che avevano le identiche fattezze fisiche del Maresciallo Giraldi (barbone nero, capelli lunghi e abbigliamento a dir poco “casual”) replicandone esattamente i comportamenti, le battute, il lessico. Parliamo di titoli come Il lupo e l’agnello del 1980 con Michel Serrault, L’uno contro l’altro praticamente amici del 1981 con Renato Pozzetto, Manolesta del 1981 con Giovanna Ralli e molti altri.
Dopo i deludenti risultati al botteghino di Delitto al Blue Gay Tomas Milian decise di abbandonare definitivamente il personaggio che aveva fortemente contribuito a creare e a rendere popolare, fuggendo dall’Italia e ritrovando, all’estero, la sua dimensione di attore di razza, attraverso la collaborazione con registi del calibro di Oliver Stone, Steven Soderbergh, Sidney Pollak.
Nel 2010 l’attore partecipò ad una trasmissione televisiva RAI, incentrata sul revival degli anni ’70 e ’80 e, nel corso di una toccante intervista del conduttore Carlo Conti, si commosse visibilmente nel rievocare gli anni in cui interpretava Nico Giraldi, mostrando di essere ancora fortemente legato a quel personaggio. Milian arrivò ad auspicare un remake che potesse rinverdire i fasti del suo “Nico il pirata” attualizzandolo alla realtà di oggi. Nelle sue parole trapelò in maniera evidente la critica nei confronti della scellerata operazione effettuata alcuni anni prima nella quale a nessuno venne in mente di coinvolgerlo, seppure per un cameo. Stiamo parlando del film Il ritorno del Monnezza.
Nel 2005, Carlo Vanzina, il figlio di quello Stefano regista di La polizia ringrazia, dichiara di voler omaggiare sia il padre, autore del primo poliziottesco ufficialmente riconosciuto, sia il doppiatore Ferruccio Amendola (scomparso nel 2001) che per anni aveva contribuito al successo dei personaggi di Milian donandogli la voce e l’inconfondibile idioma romanesco.
Per questo motivo, coinvolgendo nell’operazione Claudio Amendola (figlio dello stesso Ferruccio) scrisse e diresse il film che, già dal titolo, dichiarava tutti i suoi limiti e la sua scarsa credibilità. Vanzina, infatti, equivoca con il nome di un personaggio che in realtà non è quello del Maresciallo Nico Giraldi del quale vuole evocare le gesta passate attraverso le avventure del figlio poliziotto (Ricky Giraldi, interpretato dallo stesso Amendola). Il “Monnezza” del titolo, infatti, è il criminale di mezza tacca celebrato nei film di Lenzi dei quali abbiamo già detto e che nulla a che fare ha con il maresciallo Giraldi protagonista del longevo ciclo di pellicole inaugurato con Squadra Antiscippo e conclusosi con Delitto al Blue Gay. C’è da rilevare, inoltre, che Carlo Vanzina fotografa la Roma di oggi in maniera falsa e caricaturale, rendendola quanto mai distante dalla città violenta e criminale degli anni Settanta.
Il film è poco più di una commedia demenziale brutta e inutile. Non aggiunge nulla (semmai toglie qualcosa) al mito di un’epoca in cui il cinema di genere spopolava e non rende affatto omaggio al ricordo di un fortunato ciclo di film che comunque, pur essendo rimasto nella storia del costume italiano e avendo segnato l’immaginario collettivo di almeno un paio di generazioni, ha all’attivo una quantità di capitoli di rara bruttezza e di scarsissimo valore artistico.
Sembrerebbe proprio che l’ideale passaggio del testimone tra Stefano Vanzina e suo figlio Carlo, chiuda definitivamente il discorso su un genere che, stando agli attuali gusti del pubblico, pare non avere più possibilità di resurrezione.
Eppure, il successo riscontrato in Italia da serial televisivi d’oltreoceano come The Shield o 24 sta a dimostrare che uno zoccolo duro di amanti del genere action-violento c’è ancora. Allora perché non provare a reinventare il poliziesco all’italiana attualizzandolo alla situazione socio-culturale odierna tutt’altro che ottimistica, rispetto all’illusorio decennio degli anni Ottanta?
Gli autori di valore, in questo campo, non mancano. Basterebbe solo che il mondo della fiction televisiva e del cinema se ne rendessero conto, mettendo un po’ da parte la miriade di preti investigatori e di mamme-detective che infestano i nostri palinsesti e che ci fanno desiderare il ritorno dei mitici commissari di ferro pronti a dispensare un po’ di sana, catartica e sopratutto “assolutamente gratuita” violenza.
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