Dopo una lunga gestazione, è nata la prima antologia italo-nipponica dove firme di alto livello di entrambe i Paesi si incontrano sul terreno comune del racconto fantastico: Urania porta infatti in edicola questo mese l’antologia Onryo, avatar di morte, una pietra miliare del brivido.
In un oscuro mondo informatico - più vicino a noi di quanto si voglia credere - non si è perso il contatto con lo spiritisimo che accompagna l’umanità dalla notte dei tempi: esseri inquietanti che la tradizione chiama Onryo si manifestano ancora.
«Sono uomini e donne morti in circostanze particolari - recita la quarta di copertina, - i cui avatar hanno conservato la capacità di fare del male.»
Curata da due nomi d’eccezione come Danilo Arona e Massimo Soumaré, impegnati anche nel ruolo di scrittori, l’antologia vede coinvolti autori italiani di spicco - Alessandro Defilippi, Stefano Di Marino, Angelo Marenzana, Samuel Marolla - mettersi a confronto con altrettanto note ed apprezzate firme giapponesi del calibro di Hiroko Minagawa, Nanami Kamon, Yoshiki Shibata e Sakyo Komatsu, quest’ultimo scomparso nel 2011.
Per parlare di questo progetto - che definire epocale epocale è davvero poco - abbiamo incontrato autori e curatori e ci siamo fatti svelare i loro segreti.
Cominciamo con i curatori dell’antologia: come è nata l’idea di un progetto tanto innovativo quanto difficile da proporre a livello editoriale?
Danilo Arona: Non vorrei sbagliare, ma le cose sono andate più o meno così. L’idea nasce da un incontro tra Alan “Big Wolf” Altieri e il sottoscritto ai tempi di Epix. Sergio era alla caccia di idee innovative per la collana e a me da tempo frullava in testa quella di mettere in piedi una singolar tenzone fra autori giapponesi e italiani sul tema del fantasma “Japan Style”. Sergio era molto intrigato dalla faccenda e io gli dissi subito che un progetto del genere poteva essere reso possibile unicamente dalla presenza in squadra dell’ottimo Massimo Soumaré, l’italiano più “giapponese” che esista in Italia... il quale, battute a parte, conosce a menadito l’ambiente letterario del Sol Levante ed è uno degli scrittori italici più amati in Giappone, oltre a essere un valente traduttore che già si è speso a lungo per le ottime antologie Alia. La Bottega del Fantastico, edite negli anni dalla Cooperativa Studi di Torino.
Avuto il via libera da Segrate, Massimo ha accettato - ovviamente con entusiasmo - la proposta che per lui consisteva nel reperire sei racconti ad hoc di altrettanti importanti autori giapponesi, tradurli e infilarsi anche come autore nella compagine italiana. Io mi sono occupato dei materiali italiani, collaborando con Sergio alla formazione della “squadra”. Premetto che ho tentato invano di tirarmene fuori, lo giuro, per non apparire troppo ingordo, ma Sergione è stato irremovibile. E credo che abbia fatto bene perché Vale va bene è un racconto speciale per me (ma, quando sarà uscito, potrò sbottonarmi un po’ di più...). Come vedi, in realtà non abbiamo proposto nulla. Se mai, qualche difficoltà è nata dopo causa la chiusura di Epix.
Massimo Soumaré: Danilo Arona, a conoscenza del fatto che avevo curato la parte sul Giappone della serie di antologie di ALIA pubblicate dalla CS_libri di Torino, mi ha contattato spiegandomi che parlando con Sergio Altieri era nata l’idea di una possibile antologia italo-giapponese di storie di fantasmi e chiedendomi se fossi interessato a partecipare scegliendo e traducendo i racconti degli autori giapponesi. Mi ha anche chiesto se volessi scrivere una storia. Ovviamente ho subito risposto di sì. Abbiamo quindi discusso tutti insieme sull’impostazione dell’antologia. Da principio Arona e Altieri erano più orientati verso storie che ricalcassero quella di Ring, ma quest’ultima in realtà è solo una tra le tante ghost stories nipponiche. Figure di fantasmi in letteratura, infatti, le troviamo già nel Genji Monogatari (Storia di Genji il Principe Splendente) di Murasaki Shikibu ritenuto da molti il primo romanzo psicologico della storia e risalente all’XI secolo dopo Cristo. Ho quindi suggerito di optare per una scelta che fosse un assaggio dei diversi filoni delle storie di fantasmi (chiamate in giapponese kaidan) moderne del Sol Levante e che quindi potesse dare un’idea dell’ampiezza delle variazioni esistenti.
C’è una certa differenza tra l’horror cinematografico e quello letterario, com’è spiegato nell’introduzione al volume scritta a quattro mani con Arona. Il secondo ha una tradizione ormai millenaria, ma anche quello cinematografico inizia subito dopo il secondo conflitto mondiale. La stessa pellicola di Ring perciò non è, come a volte è stata erroneamente considerata, una novità, ma al contrario l’ennesima rielaborazione di un antico tema semplicemente innestato su alcuni elementi moderni.
L’idea iniziale è del 2007, ma il libro esce nelle edicole nel gennaio 2012: questi anni sono stati di lavorazione o di attesa?
Danilo Arona: Be’, la lavorazione si è presa i suoi giusti tempi. Soprattutto da parte di Massimo per ovvi motivi. Dopo la traduzione, il montaggio e un primo editing da parte nostra ci siamo trovati di fronte al problema deontologico di spiegare al lettore occidentale tutta una serie di terminologie, usi, costumi e riferimenti mitologici, tali da richiedere un fitto glossario e tantissime note. Che in verità non appesantiscono, ma vanno ad arricchire il bagaglio culturale di chi legge, fornendo anche ottimali percorsi di comprensione del complesso universo animistico giapponese. Per il resto sono stati anni di attesa.
Come gli appassionati sanno, Epix chiuse. Anzitempo, se lo posso dire sommessamente. Ma purtroppo in linea con una sfortunata tendenza italiana a penalizzare certe iniziative autoctone, coraggiose e un po’ controtendenza. La fine della collana aveva privato l’antologia della sua naturale sede editoriale. E confesso che per un po’ ho temuto che non succedesse nulla. Io, non ne faccio mistero, la vedevo bene in libreria, magari fra gli Oscar. Poi è saltata fuori l’opzione di Urania, che è una sede prestigiosa e che molto ha dato agli amanti del fantastico tout court. Ed eccoci qui, a constatare che la calma e la pazienza sono sempre le virtù dei forti. Peraltro non c’è nulla da recriminare: i tempi editoriali sono questi.
Massimo Soumaré: Prima di tutto sono stati scelti gli scrittori. Per quanto riguarda gli autori giapponesi, essendoci molti esponenti assai validi ho dovuto riflettere con attenzione su chi selezionare. Preso direttamente contatto con loro, successivamente di ciascun autore ho letto vari racconti per vedere di includere nell’antologia sei storie significative. Tanto per farsi un’idea, c’è da tenere conto che gli scrittori di letteratura di genere giapponese pubblicano mediamente dai quattro ai nove volumi l’anno più numerosi racconti. Romanzieri come Kaoru Kurimoto o Hideyuki Kikuchi in quarant’anni di carriera sono arrivati a pubblicare oltre quattrocento romanzi. Si può quindi facilmente immaginare quanto ampio sia il materiale complessivo prodotto. Arrivato a questo punto, li ho infine tradotti. Per gli autori italiani al contrario i racconti sono stati scritti appositamente e si è dovuto attenderne la stesura.
C’è voluto quindi un certo tempo per avere tutti i testi pronti. Ora non ricordo bene, ma credo circa un anno e mezzo dall’inizio del progetto. Poi, purtroppo, il diavolo ci ha messo la coda... L’antologia era prevista in uscita nella collana Epix la quale, com’è noto, è stata interrotta. Questo ha richiesto di trovare un’altra collana in cui inserire il volume e anche di reimpostare completamente il piano editoriale. Perciò, per rispondere alla tua domanda, la maggior parte del tempo è stato di attesa.
Avete notizia di come sia stata presa in Giappone l’idea di questa antologia?
Danilo Arona: Mah, mi pare bene, quanto meno con benevola curiosità. Però l’amico Massimo ne sa molto più di me...
Massimo Soumaré: Fortunatamente pare stia destando un certo interesse. A fine gennaio uscirà un articolo di presentazione dell’antologia nel Komatsu Sakyo Magazine, una rivista prodotta dalla IO Corporation, società creata dallo stesso Sakyo Komatsu, e distribuita dalla Kadokawa Haruki Corporation del noto produttore cinematografico ed editore Haruki Kadokawa.
La rivista continua a essere pubblicata nonostante la morte dello scrittore avvenuta quest’estate grazie al lavoro e all’abnegazione della Sig.ra Otobe che è stata sua assistente per trentaquattro anni. Komatsu si è laureato in letteratura italiana nel 1954 con una tesi su Pirandello, per cui ha sempre avuto un occhio di riguardo per il nostro paese a dispetto che proprio l’italiano sia una delle poche lingue in cui non è mai stato tradotto neppure il suo capolavoro Nihon chinbotsu (Il Giappone affonda). Non per nulla, nel 2007 sempre nel Komatsu Sakyo Magazine, per la precisione il numero ventotto, è stato pubblicato un dibattito tra Komatsu e Vittorio Catani nel quale i due autori si sono confrontati sulla letteratura di fantascienza dei rispettivi paesi. Nell’autunno del medesimo anno la versione italiana del dibattito è uscita nel numero quarantatré della rivista LN-LibriNuovi edita da CS_libri.
Passiamo ad ascoltare gli scrittori nostrani dell’antologia. Stefano Di Marino, il Giappone è presente nello spirito di molti tuoi romanzi e racconti: cosa significa per te - sia come uomo che come scrittore - l’“idea” del Giappone?
Per me il Giappone è un luogo mitico, fisicamente e culturalmente, impressione confermata dalle volte in cui ci sono stato, ahimè ormai molti anni fa. Però la sua cultura, non solo marziale, mi ha influenzato moltissimo come autore. Cinema, romanzi e fotografia sono costantemente dei punti di riferimento per partire verso approfondimenti del mio immaginario. In questo caso abbiamo concordato con Danilo un racconto sul tema ma appositamente non di ambientazione nipponica. L’idea era quella di riproporre certe suggestioni orrorifiche nipponiche in un ambiente italiano. Al contrario di quanto è avvenuto nel racconto che scrissi per Bad Prisma (Kitsune la donna volpe) che invece era volutamente una storia di samurai. Mi pare interessantissimo l’accostamento tra narrativa italiana e nipponica: speriamo che sia un tentivo ben accolto anche dai nostri lettori.
Alessandro Defilippi: cosa ci fa uno “psicanalista junghiano” in un’antologia di fantascienza? E cosa pensi in generale di questo genere letterario?
Il fatto è che gli psicoanalisti, soprattutto gli junghiani, sono come le cattive ragazze: vanno dappertutto. Ma sono qui anche per altri, forse migliori, motivi: il primo è che scrivo racconti “gotici”, come piace chiamarli a me, da sempre, e il fantastico è presente in tutti i miei romanzi, anche in quelli più letterari; il secondo è che mi ha invitato un caro e vecchio complice come Danilo Arona, e quando Danilo chiama, rispondo sempre. Per di più, come tutti gli scrittori gotici, i fantasmi m’inquietano davvero, e confesso che film come The Ring e ancor di più The Grudge hanno tormentato le mie notti. Credo che i bambini, come i protagonisti del mio racconto, abbiano uno straordinario potenziale di bene e di male, come se in loro fossero ancora indistinti.
Essere pubblicati su Urania è una rivincita e un piacere sottile. Da ragazzo e da giovane adulto fui un lettore spietato di fantascienza, prediligendo autori come Farmer, Delany, Herbert, Zelazny, Harness, ma anche le Space Operas. E, anche se non ho mai scritto SF, non mi perdo mai un film di genere. Onryo, in realtà, è certo più legato ai temi del fantastico e dell’horror, ma d’altra parte, la prima volta che lessi Lovecraft fu proprio in un volume di Urania. Credo che il fantastico sia una parte integrante dell’immaginario umano e che lo innervi in un modo costante e sotterraneo, aprendolo al senso del mistero. Penso a Moby Dick, a Cime tempestose, a Joseph Conrad o a Henry James. Penso, nel Novecento, a Kafka, a Mann, alla trilogia di Auster, a quel Ballard che esordì come autore di genere per diventare poi uno dei massimi scrittori del secolo, ad Angela Carter e ad Ágota Kristóf. Ai film di Murnau, di Begman e di Polansky, a Blade Runner. E qui mi fermo. Chi vuole, può formare il suo canone personale. Almeno in questo restiamo liberi.
Danilo Arona, a quanto pare il tuo racconto tiene a battesimo un nuovo personaggio inquietante: i tuoi lettori non avevamo già abbastanza sonni agitati? Scherzi a parte, vuoi parlarci di questa tua creazione e del tuo rapporto con la cultura giapponese?
Eh, qualcosa dico, ma senza spoilerare... In primis, il vero protagonista di Vale va bene è il Morgan Perdinka “alternativo”, il vecchio musicista solitario che suona la chitarra nei club per mettere assieme qualche euro (dato che lui la pensione proprio non ce l’avrà mai...), un personaggio che ho già fuggevolmente infilato nel racconto Ancora il vento piange Mary e nella prefazione al romanzo di Perdinka Malapunta. Poi c’è il fantasma, che è una “lei” di cui Morgan può solo innamorarsi, dato che il nostro non è messo tanto bene... Ma soprattutto c’è uno spaventoso mistero da risolvere e Morgan, per venirne a capo, va a chiedere aiuto alla giornalista Monica Migliardi, che è un mio antico personaggio che ha attraversato quasi da protagonista le pagine di Black Magic Woman. E qui mi fermo, precisando che non ho affatto inteso creare un fantasma guardando soltanto al Giappone.
Credo di poterlo a dire a nome di tutti, noi abbiamo tirato fuori il “nostro” immaginario e il “nostro” folclore... Il doverlo fare a cospetto di sei straordinari colleghi giapponesi e nel contesto di un’antologia così fuori dagli schemi ha reso possibile la scoperta in fase produttiva, chi più chi meno, che il nostro immaginario è stato nutrito in profondità anche con suggestioni orientali. Certo, ci stanno operazioni “mirate” come quella di Massimo che non ha bisogno di alcuna maschera per trasferire i brividi post-Ringu sotto la Mole Antonelliana. Ma quel che conta a parer mio, per la compagine italica, è la sottotraccia. E allora provate a leggere i racconti di Marolla e Defilippi tenendo d’occhio quest’ultima e capirete quel che voglio dire...
Del resto, quando si guarda un film di fantasmi giapponesi, è divertente andare a cogliere le sottotracce provenienti da altre sponde cinematografiche. Be’, personalmente in molti film alla Ringu ho trovato spesso stilemi, idee e atmosfere mutuate dal cinema italiano degli anni Settanta e Ottanta. Solo per dire alla fine che il mutuo scambio o la reciproca influenza sono processi spiraliformi dei quali in più di un caso gli autori neppure si rendono conto.
Angelo Marenzana, nell’introduzione si accenna ad una tua possibile ispirazione dalla celebre Melissa aroniana: vuoi confermare, negare o rettificare?
Sarà perché le radici mie e di Danilo Arona si intrecciano e si nutrono della stessa aria di Alessandria (la Bassavilla di cui Danilo è lo storico narratore)? Forse è per questo che oltre allo stesso dialetto abbiamo le stesse “visioni”. Nella stesura del racconto non mi sono ispirato a Melissa per il semplice fatto che La Donna dai Capelli Ramati ha preso vita in tempi non sospetti, più di 10 anni fa, ancor prima dei primi ufficiali vagiti di Melissa. Il racconto è stato poi modificato ad uso dell’antologia ma la struttura e il profilo dei personaggi è rimasto tal quale. Una casualità? Chissà. Forse le due donne se la ridono alle nostre spalle osservandoci in questa querelle. Comunque, visto che poi Danilo è un maestro indiscusso del genere e della capacità di plasmare “creature” sempre in bilico tra mondi paralleli, posso solo dire che l’accostamento tra la mia donna dai rossi capelli e Melissa mi gratifica molto.
Samuel Marolla, sei stato definito “autore rivelazione” e tanti altri complimenti entusiasti, qiundi vuol dire che hai tutti gli occhi addosso per vedere se le lodi saranno confermate: come vivi questa situazione? Ma soprattutto, come sei riuscito a portare il Giappone a Milano?
I complimenti mi fanno piacere, naturalmente; ma non hanno alcuna influenza sui miei lavori, così come non ero condizionato in senso opposto quando non avevo ancora pubblicato nulla. Scrivo in totale libertà creativa, senza pensare al giudizio finale. Questo fa parte del percorso creativo in senso stretto, ed esula ovviamente da fisiologiche procedure tecniche (rilettura dei testi da parte di lettori-beta, editing, ecc.).
Un piccolo pezzo di Giappone è sempre stato dentro di me: ho sempre avuto una passione per questo paese e per le sue molteplici espressioni culturali, soprattutto amo molto il folklore, la narrativa fantastica e la storia giapponesi. Il racconto di Onryo Fobia, di ambientazione italiana, ha un cuore pulsante giapponese: l’ispirazione primaria della storia, infatti, è il triste fenomeno degli hikikomori [coloro che scelgono l’autoreclusione. n.d.r.].
Massimo Soumaré: puoi anticiparci qualcosa del tuo racconto e del filo che lega la Tokyo del Periodo Edo e la Torino di oggi?
È un’elaborazione molto libera e personale di Yotsuya kaidan, un’opera classica delle storie di fantasmi giapponesi assai famosa in patria nata originariamente come dramma del teatro kabuki.
Mi piace molto la particolarità del fantastico giapponese di inserire il sovrannaturale e il misterioso nella quotidianità in un modo capace di generare nel lettore uno strano senso d’inquietudine e la poetica che pervade i racconti degli autori nipponici. Per quest’antologia volevo inoltre scrivere una storia che legasse l’Oriente all’Occidente mantenendo però al contempo distinte le rispettive particolarità. Ho cercato di dare alle scene legate al periodo Edo (1603-1868) una forte veridicità storica creando poi dei contrasti che giocano a vario livello su dicotomie come quelle tra le vecchie ambientazioni del Giappone governato dalla famiglia Tokugawa e l’architettura barocca della Torino di oggi, tra estate e inverno, tra vita e morte, tra amore e odio. È stato complesso, ma anche molto divertente.
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