Un giorno il generale Manstein decise di scrivere personalmente le proprie memorie: com’è spesso usanza, per far questo si rivolse a qualcuno che sapesse scrivere. Scelse niente meno che il grande filosofo e letterato parigino Voltaire, il quale però fu lento nella stesura anche perché nel frattempo il Re di Prussia gli aveva commissionato la “correzione” di alcuni versi. Stanco di attendere, Manstein pressò lo scrittore, il quale non poté che rispondere pungente: «Il re mi ha inviato i suoi panni da sbiancare: i vostri dovranno attendere.»
Questo aneddoto è raccolto in un saggio, L’esprit de tout le monde, che assomiglia più ad un rotocalco di gossip: pubblicato a Parigi nel 1859 da P.-J. Martin, raccoglie in ordine alfabetico aneddoti saporiti, voci di corridoio e in generale chiacchiere non documentate. Però testimonia il fatto che Voltaire era visto come un ghostwriter: che lo sia stato o meno - ed è facile che lo sia stato - ha poca importanza.
Nel precedente articolo sugli “scrittori fantasmi” abbiamo visto che all’epoca voltairiana pare già esistesse il termine “nègre” per indicare i ghostwriter, ma il filosofo parigino qui usa un termine curioso: “blanchir”, sbiancare, dipingere di bianco. Non sfugge la deliziosa contrapposizione del blanche con il noir: Voltaire sembra informarci che non era un semplice nègre - termine, lo ricordiamo, che in campo editoriale è usato ancora oggi per indicare chi scrive fisicamente un testo che qualcun altro, più famoso, firmerà - bensì un più raffinato blanchisseur. Con questo titolo infatti il pettegolo Martin inizia, alla lettera V, il suo elenco di aneddoti sul celebre scritore: “Voltaire blanchisseur”.
Pochi anni prima del libro di Martin un’altra contrapposizione di colori aveva infiammato Parigi: nel 1845 il giornalista letterario e scrittore Charles Jean-Baptiste Jacquot, noto con lo pseudonimo di Eugène de Mirecourt, diede alle stampe il più esplosivo dei suoi saggi: “Fabrique de Romans: Maison Alexandre Dumas et compagnie”. Questo “sinistre libelle” (come da alcuni venne definito all’epoca) infiammò più di un animo, e Alexandre Dumas in persona trascinò il Mirecourt in tribunale, in un processo che si concluse con la condanna a sei mesi di carcere per il povero giornalista.
Ma cosa diceva mai questo libretto di così offensivo da scatenare le ire del Grande Dumas? Malgrado la pena inflitta all’autore, il testo non diceva altro che la verità.
La nonna paterna di Alexandre Dumas (padre, specifichiamo ora senza ripetere poi) era una schiava nera di Haiti: il letterato rivendicava il “sangue nero” che gli scorreva nelle vene e i tratti somatici da mulatto. Era un “nègre”... che utilizzava un “nègre”!
Su questo gioco si basava l’accusa accorata di Mirecourt: Alexandre Dumas non era quell’autore che tutti stimavano in Francia, e nel mondo, bensì un semplice nome apposto sulle opere di altri. Quelli che venivano chiamati “segretari” di Dumas, altro non erano che i suoi nègres, quelli cioè che scrivevano i capolavori che la gente amava e che fruttavano bei soldi.
Il giornalista fece nomi e cognomi e stilò elenchi di chi avesse scritto in realtà cosa, dimostrando che Dumas non era chi tutti credevano fosse. «I nostri attacchi sono diretti solo all’uomo di lettere, al pirata che ci deruba», chiude con passione Mirecourt il suo saggio, non esitando a chiamare “immorale” Dumas e lanciando un previsione purtroppo sbagliata: «Nessun giudice avrà il coraggio di condannarmi se a gran voce lancio il monito “la letteratura perirà”!» Invece un giudice coraggioso lo si trovò, anche perché gli attacchi del giornalista erano più diretti alla vita privata di Dumas che a quella letteraria, al contrario di quanto prima affermato.
Cosa c’è di vero nelle accuse di Mirecourt? Tutto, ovviamente, perché nel mondo letterario a pensar male ci si coglie sempre. Ma con una distinzione imperativa: nessuno dei nègres di Dumas era Dumas...
«Era un imbroglione, ma geniale» ci viene incontro Arturo Pérez-Reverte con il suo capolavoro “Il club Dumas”, atto d’amore sconfinato per il feuilleton e la letteratura popolare, «Dove altri si sarebbero limitati al plagio, lui costruì un mondo romanzesco che si regge in piedi ancora oggi... “L’uomo non ruba, conquista” ripeteva spesso... “Fa di ogni provincia che occupa un ampliamento del suo impero: vi impone le sue leggi, la popola di temi e di personaggi, allunga il suo spettro su di essa...” Che altro è la creazione letteraria?»
Molto probabilmente i “collaboratori” di Dumas non si limitavano alla ricerca storica e alla stesura di prime bozze dei romanzi - come vuole il giudizio ufficiale - ma scrissero gran parte dei romanzi che portano ancora la firma di Dumas. Senza però quella firma, di quei romanzi non rimarrebbe alcun ricordo: come non ne rimane di quei libri che i nègres scrissero prima e dopo la loro collaborazione con il celebre autore.
Il più celebre dei nègres di Dumas fu Auguste Maquet. Questi insegnava al Lycée Charlemagne, dove aveva studiato insieme a Théophile Gautier e Gérard de Nerval, ma nel 1835 lasciò tutto perché voleva diventare scrittore. «Chiederò alla letteratura quello che l’università mi rifiuta: gloria e profitti», ebbe a dire: con questi “ideali” in mente, fu una fortuna diventare “collaboratore” di Alexandre Dumas. La gloria non fu molta - sebbene oggi è ancora noto - ma di sicuro i profitti furono eccellenti: al momento di morire, Maquet era più ricco di Dumas... Può bastare come ricompensa?
Di sicuro lavorare con il gigante non fu facile, tanto che i rapporti finirono male: in seguito Maquet fece causa perché gli venisse riconosciuta la paternità di quasi venti romanzi firmati da Dumas, ma non vi riuscì. Come insegna Marecourt, chi attacca Dumas perde.
Il rapporto tra il nègre Dumas e il nègre litteraire Maquet diviene un’apprezzata pièce teatrale nel 2003: “Signé Dumas”, di Cyril Gely ed Eric Rouquette. Nel 2010 Safy Nebbou e Gilles Taurand trasformano il testo nella sceneggiatura del film “L’autre Dumas”, diretto da Safy Nebbou e interpretato da Gérard Depardieu (Dumas) e Benoît Poelvoorde (Maquet).
La storia non ha praticamente nulla di letterario. Girato nella meravigliosa ambientazione del château de Monte-Cristo (a Le Port-Marly, nella Francia settentrionale) - che Dumas si fece costruire nel 1846, per poi perderlo quasi immediatamente per via dei molti debiti - già è noto il fatto che Maquet è il vero scrittore, sebbene Dumas possegga il “tocco magico”. La trama verte interamente sul fatto che uomini vecchi si rovinano per donne giovani e che ogni rivoluzione nasce dal desiderio di portarsi a letto le rivoluzionarie: tutto già risaputo.
Ci sono però alcune licenze, nel film e nella pièce: Maquet addirittura dice di avere messo al sicuro le prove che dimostrerebbero chiaramente che alcuni romanzi li ha scritti lui. Ovviamente non fu così.
Ma questo rientra nel pieno stile dumasiano: la Storia vera filtrata attraverso la menzogna letteraria per dar vita ad altro... a qualcosa di bello.
Dove sono finora gli pseudobiblia? Questa rubrica si occupa di “libri falsi”, è vero, ma anche di divertissement e finzioni letterarie: e cos’era Dumas se non il simbolo stesso della finzione letteraria?
Ma questa finzione è una forza creatrice, non una truffa. Non ci credete? Chiedetelo a Gatien Courtilz de Sandras, che nel 1704 scrisse le vere memorie di un vero moschettiere, Charles de Batz-Castlemore, conte di Artagnan. La sua vita è molto simile a quella del suo omonimo letterario, ma questo oscuro guascone possiamo ancora ricordarlo dopo trecento anni solo perché finì negli ingranaggi della “fabbrica del romanzo” di Dumas: nessuno ricordava il vero moschettiere che si faceva chiamare d’Artagnan se Auguste Maquet non si fosse reinventato la sua vita, abbellita poi da Dumas.
Volete un “libro falso”? Leggetevi “I tre moschettieri” e poi “Les mémoires de M. d’Artagnan”... e cercate di capire quale sia il vero e quale sia il falso.
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