Questa settimana incontriamo Fernanda Littardi, traduttrice di autori come Christiane Singer (Storia d’anima); Alain Minc (Spinoza, un romanzo ebreo); Sylvie Germain (Tobia delle paludi); Max Monnehay (Corpus Christine); David Bessis (Tentacoli); Marc Augé (La madre di Arthur); Georges Simenon (Maigret e il ministro, Maigret si difende) e tanti altri.
È curatrice dell’antologia Le rose del Belgio. Racconti di scrittrici belghe francofone (E/O 2005).
Quand’è che hai deciso di diventare una traduttrice? E, se non l’hai deciso, come ti ci sei trovata in mezzo?
Se devo indicare una data precisa, la decisione concreta di diventare traduttrice la presi nel 1991. Prima era un’idea che mi frullava in testa da anni, più a livello di sogno che di effettivo progetto di vita. Il professore con cui mi ero laureata, Giorgio de Piaggi, presso l’Università di Genova, aveva provato a farmi cambiare idea, con un suggerimento perentorio: «vada a lavorare intanto!». Mesta mesta, avevo cominciato a lavorare per una società finanziaria a Genova, seguendo naturalmente i corsi specifici e tutto quanto. Dopo i primi mesi di lavoro a testa bassa, per dimenticare che in fondo era tutto il contrario di ciò che mi interessava veramente, ho capito che forse potevo provare a scrivere a un po’ di case editrici, come mi ripromettevo di fare da tempo. Quel lavoro di perenne ricerca delle parole, da me ammirato nel leggere i diari di Cesare Pavese - che si faceva aiutare da un’amica americana per «trovare le parole per dirlo» - da me vagheggiato e ambito dalla più tenera età, cioè almeno dai 13-14 anni, era ora di provare.
A Genova, dall’autunno seguente, cominciai a inviare curriculum alle case editrici più importanti d’Italia, sempre tenendomi in contatto con l’autore della mia tesi di laurea, Yves Navarre, che voleva essere tradotto da me, avendo letto la tesi stessa.
Quindi decisi di partire proprio dalla casa editrice che nel 1984 aveva pubblicato il romanzo con cui si era aggiudicato il Prix Goncourt, sperando che intendessero pubblicarne altri, peraltro molto più interessanti. Ma la Rusconi, delusa dalle vendite di quel primo romanzo, non aveva nessuna intenzione di riprovarci... Passai dunque a proporre il mio autore a una piccolissima casa con una nuova collana dedicata ad autori omosessuali, visto il contenuto dei romanzi. Mi pare si chiamasse Enola. Insieme a questa, un’altra casa editrice di provincia, per cui dovrei spulciare i miei schedari per riportare il nome. Qui ebbi le vive congratulazioni di un signore simpatico, evidentemente gay, che forse si sentiva erroneamente e comprensibilmente in comunione d’intenti con me per la natura dei romanzi.
La vera occasione arrivò invece con un libro dedicato allo stilista Emanuel Ungaro, grande amico del mio autore. La casa editrice era Electa, che rimase contentissima del mio operato, per quanto acerbo e poco rifinito fosse, rileggendolo oggi. Decisi quindi di andare a seguire un corso specifico a Torino, un po’ costoso forse, ma con grandi nomi della traduzione. Al ritorno dal corso, decisi di rifare la traduzione di Madame Bovary e poi di confrontarla con una traduzione pubblicata, di chiara superiorità stilistica e di resa. Così insomma mi sono buttata, di mia spontanea volontà, pervicacemente e con insistenza, nel mondo della traduzione editoriale. Anche se è stato tutt’altro che facile, tutt’altro che semplice. Lasciata Genova avevo accettato un posto di supplente di Lingua inglese a scuola (sì, perché nel frattempo nel ’91 avevo superato il concorso ordinario per l’insegnamento della Lingua Francese nella scuola media, ma si sa che i posti di francese non sono moltissimi). Il concorso però lo superai col punteggio più alto di tutti gli altri candidati e coi complimenti da parte della commissione per il mio francese parlato, cosa che mi permise di cominciare a insegnare Inglese nella scuola media, andando sempre a Milano nel giorno libero dall’insegnamento, mi pare fosse il venerdì, per andare a contattare le case editrici di persona. Finalmente la Mursia mi affidò una revisione molto complessa, quasi una ritraduzione di un intero diario di Jean Cocteau, con tanto di note ecc. Finalmente ero entrata nel mondo editoriale, o almeno così credevo.
Se hai tradotto da più lingue, quale secondo te è più “confortevole” nel passaggio all’italiano?
Poche volte ho tradotto da un’altra lingua, l’inglese. Alcune volte dall’italiano verso il francese, ma è meglio non farlo, per correttezza verso i colleghi francesi. Episodicamente, diciamo. Preferisco continuare a tradurre dal francese, mi sento più sicura di avere tutti i mezzi, culturali, antropologici e familiari per poterlo fare. Quindi per me è più “confortevole” comunque, perché mi sento innanzi tutto più autorizzata a farlo.
Ti è capitato di tradurre un autore che proprio non sopporti?
Non ricordo di aver mai tradotto un autore che ho durato fatica a sopportare, ma forse è perché per noi traduttori ogni autore di testo che passa un po’ di tempo sul nostro leggio, accanto allo schermo del computer, diventa un autore desiderato, che ci sfida in qualche modo a portare a termine la traduzione. Almeno così capita a me e credo anche a molti colleghi.
Il testo che più ti ha fatto ammattire a tradurre? E quello che invece più ti ha divertito?
Ammattire? Nel senso di strapparsi i capelli per la difficoltà? Parecchi, a dire il vero, ma è la cosa più divertente!
Ti è mai capitato di aver voglia di “aggiustare” qualche passaggio mal scritto? Secondo te un bravo traduttore aggiusta o lascia così com’è?
Aggiustare qualcosa? Forse la tentazione a volte viene, ma si sa che è impossibile, per cui non se ne parla proprio. Il “bravo” traduttore traduce solo quello che c’è sulla carta, senza niente aggiungere.
Per finire, qual è il libro (o la serie di libri) di cui vai più fiera di aver curato la traduzione?
Di cosa vado fiera: della raccolta da me curata, ideata e tradotta: Le rose del Belgio, raccolta di scritti di autrici belghe, per la casa editrice e/o; poi del romanzo tradotto per Bollati Boringhieri di Marc Augé, il suo primo romanzo. Ed è meglio fermarsi qui.
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