Dopo quattro anni ricompare la creatura di Gianni Biondillo, architetto e scrittore milanese, redattore di Nazione Indiana.
Ne I materiali del killer, Michele Ferraro, ispettore di Quarto Oggiaro, fa un duplice ritorno: quello ai suoi lettori, che lo attendevano dal 2007 (anno di pubblicazione de “Il giovane sbirro” edito, come tutti i romanzi del ciclo e non solo, da Guanda), e il ritorno alla sua Milano, dopo una parentesi di tre anni nella capitale, città «troppo grande, troppo illogica, troppo tutto per lui».
Con una ex-moglie e una figlia preadolescente, Giulia, oltre alla storia conclusa con il commissario Elena Rinaldi, qualche pelo bianco sulla barba e la capacità, almeno per quanto riguarda le case, di fare sempre la scelta sbagliata nel momento sbagliato, Ferraro è un uomo che sa ascoltare e riflettere, che prende e va a Lugano solo per comunicare di persona a una ragazza la notizia della morte del padre, rimasto ucciso mentre tentavano di derubarlo nella villa di proprietà. Ma non è l’unico incidente: ci ha rimesso al pelle anche il rapinatore, uno zingaro. E nello stesso momento, poco distante, un’insolita evasione dal carcere ha messo in luce alcune incongruenze, come esempio il particolare che l’evaso è un meschinello per il quale si è messa in moto la malavita organizzata.
Oltre a una storia che si dipana con situazioni e dialoghi verosimili, l’autore dimostra anche questa volta una capacità stilistica che sprona il narrato e spazia dai discorsi diretti – dal dialetto meneghino, alla vita quotidiana, al registro professionale, con sprazzi di botta e risposta ironici – ai momenti descrittivi, ai respiri esistenziali e ai vissuti individuali/universali (bellissime, in tal senso, le pagine africane del capitolo “Il volo delle libellule”), oltre a questo, dicevo, si staglia infine un altro grande talento: saper riportare scorci di un’Italietta autoreferenziale, un po’ gretta, diffidente, razzista. Quella dei pensieri beceri riprodotti in preghiera:
«Ma tu, onnisciente, onniveggente, lo sapevi, e avevi fatto emigrare qui, sulle nostre terre, per noi, più di quattrocento anni fa, loro, gli zingari di merda, i topi di fogna, incapaci di cercare un’emancipazione, inabili a sognare un futuro di affrancamento. Un popolo eunuco, debole, inadeguato a combattere, schiavizzato, bruciato nei forni, emarginato, e mai una reazione, mai una battaglia, mai una guerra. Perfetti per noi. Grazie Padre Eterno per avermeli concessi lerci, accattoni, sgorbi, per averli resi ladri di pollame, topi d’appartamento. Se ho uno scolmatore del Seveso da costruire dato che esonda ogni anno e non lo faccio, se ho un collega di partito che ha intascato mazzette [...] non posso che ringraziarti per avermi indicato la via maestra: appena ho un problema, appena il polso dell’indignazione televisiva batte un po’ meno a morto, mostro il pugno d’acciaio, il volto truce, sgombero a casaccio campi di zingari, sterco dell’umanità [...]».
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