Ci ha fatto conoscere il più insospettato dei serial killer, ci ha fatto rabbrividire con il suo romanzo Polvere rossa, ci ha svelato alcuni segreti della criminologia: abbiamo incontrato Marco Bettini per conoscerlo meglio.
Come nasce il personaggio di Andrea Germano, il criminologo protagonista, e quanto di te c’è in lui?
Nasce dal fatto che per un’indagine dentro la psiche di un pazzo criminale mi serviva uno che facesse il suo mestiere. Il che mi ha costretto a studiarmi il Dsm IV [Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali], dove sono catalogate le malattie psichiche, a intervistare un criminologo come Massimo Picozzi e a leggermi il suo libro sul Criminal Profiling. Di me in Germano c’è la stessa percentuale che c’è in tutti gli altri personaggi, che devono interamente la loro esistenza all’autore. Però non sono in grado di quantificare questa percentuale.
Quando si parla di criminologi e profiler vengono in mente autori e personaggi statunitensi: ce n’è qualcuno che ti ha ispirato, anche solo di sfuggita?
Non in particolare, perché il profiler in Italia coincide di più con le figure dello psichiatra e del criminologo. Nel libro mi diverto a citare Will Graham, cioè il protagonista di Red Dragon, di Thomas Harris. Ma è solo un gioco, e un omaggio all’autore del Silenzio degli innocenti.
Germano inizia con il distacco di un consulente ma poi si lascia coinvolgere molto dal caso: pensi che sia così anche nella realtà? (In fondo anche i criminologi sono umani!)
Il distacco di Germano è dovuto al mestiere che fa. Se non eserciti il distacco mentre passi il tempo a interrogare fotografie di corpi orrendamente mutilati, rischi quella che si chiama sindrome burn out. In pratica, vuol dire farsi prosciugare dal lavoro fino a restare senza energie fisiche e mentali. Il coinvolgimento nell’indagine è dovuto in parte all’influenza che il questore Ettore Mazza esercita su Germano, spingendolo molto oltre i limiti imposti dal mestiere, e in parte dalla mia convinzione che se continui a osservare i fenomeni senza agire di conseguenza rischi di inaridirti in fretta. Diciamo che ogni riferimento alla situazione sociale e politica italiana, dove tutti recitano la parte dello spettatore attonito di fronte al disastro incombente, è puramente voluta.
Non svelo ovviamente la particolarità del finale, ma c’è comunque da evidenziare che per il tuo romanzo ti sei informato molto e soprattutto a 360 gradi.
Diciamo che ho dovuto studiare psichiatria, intervistare criminologi, poliziotti, medici, effettuare diversi set fotografici nei luoghi che avevo scelto come scenografia della storia. Tutte attività molto divertenti, che forse costituiscono la vera spinta a scrivere romanzi, almeno per me. Vuol dire misurarsi con la realtà di qualcosa che, all’origine, è soltanto immaginata.
Non ci sono molte parole lusinghiere, nel tuo romanzo, per Rimini, però lo stesso si sente che è una città che porti nel cuore...
Da buon cesenate, ho passato le estati della mia adolescenza diviso tra i confini certi della città di provincia e la vasta prateria dei sogni a buon mercato che si spacciano sulla Riviera. Penso che l’intera Romagna, perennemente sospesa tra queste due dimensioni, tra piccola città d’inverno e grande metropoli d’estate, sia un posto magico, e assurdo, schizofrenico e quadrato, dove l’immaginazione ha la stessa forza della dura realtà. Per riuscire a parlarne anche male, bisogna comunque amarla. E resta una scenografia perfetta per una storia che alterna visioni schizoidi a descrizioni particolareggiate di situazioni molto concrete.
Domanda obbligatoria: progetti per il futuro? Stai già lavorando al tuo prossimo romanzo?
Ho già iniziato un nuovo romanzo, ma sto attraversando un periodo difficile della mia vita. Dominato dal pessimismo sulle cose che ho intorno e anche sul mondo dell’editoria italiana. Mi pare che scrivere buoni libri costi molto tempo e molta fatica e agganciare un pubblico distratto da mille altre cose costi ancora più tempo e ancora più fatica. Forse, semplicemente, non ho più le energie per trovare un dialogo con un pubblico che capisco sempre meno. Non lo so, magari finirò di scriverlo o forse no. È un periodo che sbattersi per fare le cose mi pare inutile, e però non c’è altra possibilità. Il paradosso è che per scrivere il prossimo romanzo sto leggendo i quattro vangeli, che dovrebbero contenere parole di speranza. Solo che io, lì dentro, non ce le vedo proprio.
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