Se la questione dello stile del Pulp merita una discussione a parte che affianchi la problematica di offrire al pubblico una lettura piacevole e quanto più facilmente fruibile e la necessità (da parte degli autori) di evolversi, magari avvicinandosi a media come il cinema e il fumetto, esistono anche altri elementi a mio avviso ancor più importanti che caratterizzano la scrittura Pulp.
Prima di tutto è mia convinzione che il Pulp come approccio ai generi presenti due elementi dei quali è utile parlare ancor prima di affrontare la questione ‘ formale’. Il primo è la mitologia e il secondo è la commistione tra vari filoni quali horror,noir, western, bellico e thriller per fare un esempio trai più noti. Sull’uso di questi due elementi è facile arrivare conclusioni che ancor prima dello stile narrativo possono introdurre delle innovazioni.
Il mito è la base del genere. L’ho già detto altre volte; sono convinto che la narrativa, tutta la narrativa dal romanzo psicologico a quello western si basi su miti. Il protagonista, i comprimari, le figure femminili (che siano o meno protagoniste), gli antagonisti. È possibile inserire delle variazioni sul tema ma, fondamentalmente stiamo parlando di miti, archetipi che sono antichi quanto le opere di Aristofane. L’immaginario dei generi si basa su alcuni schemi che non solo è inutile voler stravolgere o ignorare mentre invece è necessario conoscerli sia che si voglia impiegarli senza variazioni, sia che si intenda ‘destrutturarli’ in maniera coerente. Il protagonista è, per antonomasia, un uomo solo.
Che sia un guerriero o uno studioso, un intellettuale o un uomo d’azione, ma anche un padre di famiglia, quando la storia comincia davvero è un uomo solo(ovviamente ciò vale anche se l’eroe è un’eroina...). E da solo (magari con l’aiuto di una donna o di qualche amico) deve affrontare le sue difficoltà. Ma, malgrado aiuti e affetto, se non è solo manca quell’identificazione con il lettore che, lo vogliamo o meno, quando si trova nei guai (anche il più insignificante intoppo burocratico) si sente solo e quindi deve trovare dentro se stesso i mezzi per superare la difficoltà. Che questi mezzi vengano acquisiti o siano già innati, ha rilevanza se il nostro protagonista deve diventare un ‘eroe’ nel corso della storia oppure lo è già, quindi un ‘prim’attore’ seriale, archetipo di chi ha già subito una fase di formazione e ha il controllo - relativo altrimenti che gusto c’è? - della situazione. La solitudine è uno stato d’animo che può essere affrontato in maniera diversa e, da sola, questa scelta narrativa condiziona il tono della vicenda. Lo straniero senza nome è un uomo solo. Nessuno sa da dove arriva, stabilisce dei legami effimeri nel luogo in cui si stabilisce, riporta l’ordine o almeno la giustizia, ma nessuno si aspetta realmente che si fermi. Se accade il lettore anela già a nuovi eventi che lo riportino nella situazione di difficoltà iniziale. Se mette su famiglia e lo vediamo in apertura al centro di un ideale nucleo familiare, sappiamo già che qualche elemento drammatico lo proietterà in un incubo in cui dovrà lottare per vendicare o salvare i suoi cari. Se la famiglia è fallimentare come nel caso di L’ultimo Boy Scout di Tony Scott sappiamo che, al di là dell’inghippo thriller, il problema del protagonista è riconquistare l’affetto della moglie e della figlia. Compito nel quale può trovare l’appoggio di un amico ma che deve sostanzialmente svolgere personalmente. Anche il Super Eroe è solo. È diverso. Ha dei super poteri che lo costringono a vivere tra ammirazione e sospetto della gente comune. Non può dire alla sua ragazza chi è, anzi il più delle volte deve mascherarsi assumendo la maschera opposta alla sua. Don Diego de la Vega è un pusillanime vanesio come sir Percy. Zorro e la Primula Rossa sono destinati a vivere nella leggenda, nel mito mentre le loro controfigure sono lo stereotipo di quanto di più umano e antieroico si possa immaginare. Superman, lo ricorda David Carradine in uno dei pezzi più interessanti di Kill Bill 2 di Tarantino, vive in una situazione opposta a quella di tutti gli altri super eroi. La sua maschera non è Superman ma Clark Kent e gli rammenta quanto siano deboli, incapaci, vigliacchi gli esseri umani tra i quali è costretto a vivere nascondendosi se non quando è chiamato a difenderli. E nello stesso tempo ad affermare la sua eroicità. Perché il mito, nella narrazione vive e combatte non tanto per la giustizia o la sopravivenza ma, soprattutto, per affermare se stesso come essere vivente. Questa è la sua natura. Una condizione che lo sottrae alla normalità della gente comune. L’eroe è mito e deve dimostrarlo continuamente. Perché, alla fiene è questo che vuole il lettore o lo spettatore. E se, per umanissime ragioni, l’eroe vuol smettere di essere tale ci sarà sempre qualcosa che lo costringerà a tornare sui suoi passi e rispondere alla sua natura agendo per quello che è. Il Mariachi alla fine di Desperado, getta la custodia per chitarre piena di pistole per andarsene con la sua Carolina...poi fa retromarcia e la raccoglie. La strada è lunga e non si sa mai....
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