Per dir la verità l’effetto dell’11 settembre 2001 sulla narrativa di spionaggio non fu immediato, ed è ovvio. Molti romanzi e film erano già in lavorazione. Alcuni già in fase di post produzione e programmazione. E ancora risentivano degli schemi narrativa del decennio precedente. Alias di J.J. Abrams ne è un esempio. Il primo episodio Truth to be Told andò in onda originariamente il 30 settembre 2001. Ho sempre seguito con grande interesse qualsiasi nuovo prodotto riguardante lo spionaggio sia letterario che cinematografico e questa serie, che vidi quasi per caso già iniziata, una domenica sera del 2002, mi catturò subito. Ancora sono convinto che sino al termine della quinta stagione sia una delle migliori alternative a 24H prodotte nel decennio passato. Certo, nella sceneggiatura si nota la volontà di pescare anche in un pubblico femminile e in cerca di trame romantico adolescenziali, i personaggi sono tutti bellini e forse non adattissimi al ruolo che ricoprono, almeno inizialmente. Ma, analizzando anche altri lavori di Abrams ci si rende conto che queste sono caratteristiche della sua narrativa. Di fatto la serie non subisce dei cambiamenti dopo l’attacco alle Torri Gemelle, si tratta di un serial spionistico, decisamente più edulcorato e ‘ bondesco’ di quanto non sia 24H ma con una sua coerenza interna e diversi risvolti interessanti. Se il punto di partenza è La Femme Nikita solo vagamente adattato alla realtà americana, il meccanismo che porta Sindey Bristow (Jennifer Garner) a diventare una super agente si evolve in maniera differente dal modello di Besson. Entra prepotentemente in scena il padre naturale Jack Bristow (Victor Garber), spia della vecchia guardia, a sua volta accusato di doppio gioco e personaggio conflittuale e ambiguo. Perfettamente adulto rispetto alla protagonista e al suo interesse sentimentale principale l’agente Vaughn (Michael Vartan). A lui si affianca il grandissimo Arvin Sloan (Ron Rifkin) un masterspy come si dice ‘con le palle’... che non mi vergogno di aver preso fisicamente a modello per creare Georg Bruckner di Ora Zero. E poi c’era la madre, Irina Derevko (Lena Olin) che è una donna adulta, sensuale, ferocissima e abile. Tutti questi personaggi e molti altri costruiscono una trama intricata che dallo spionaggio si sposta verso il fantastico. Ora è curioso che ‘prima’ del successo del Codice da Vinci sia stato inserito il plot della ricerca nel passato e del segreto di un alchimista rinascimentale. Milo Rambaldi e le sue macchine futuristiche, i suoi segreti legati alla religione e al futuro dell’uomo, sono una trovata che sposa benissimo due filoni, anche se, nel finale, l’enorme palla di energia sopra la Russia manda un po’ tutto in berlina... L’ultima serie con l’interprete incinta, purtroppo è una delusione. Ma c’è stato un momento in cui tutti volevano partecipare allo show da Tarantino, a Roger Moore, a Faye Dunaway, a Rutger Hauer a Isabella Rossellini solo per citare alcune guest star tra le più note. Quentin Tarantino ha voluto una parte –ovviamente da cattivo- in un doppio episodio che è stato tra i migliori. Questo per dimostrare il livello di popolarità raggiunto dalla serie. I rapporti tra Sidney e i genitori intrecciano abilmente problematiche personali facilmente condivisibili dal pubblico a piani spionistici che arrivano a due o tre livelli sovrapposti. Una continuity assai complicata resa facilmente digeribile da caratteri relativamente semplici e plot incalzanti. Di fatto almeno nelle prime stagioni è il trasformismo di Sydney, la rapidità e la dinamicità delle sue estemporanee missioni in ogni angolo del mondo che rendono intrigante la vicenda. Lentamente poi i rapporti interpersonali, i tradimenti, la caccia alle macchine di Rambaldi prendono il sopravvento. Creano un film unico, capace di rinnovarsi, di inventarsi colpi di scena a ripetizione in una realtà parallela, che è un po’ quella di James Bond: simile alla nostra ma non esattamente quella delle cronache. Lo stesso 007 d’altronde fatica ad adattarsi ai tempi.
La morte può attendere è un ottimo film nella prima metà con Bond prigioniero dei coreani, scambiato su un ponte come in un vecchio film di spionaggio, ma cosciente che molte cose cambiano. Tanto da rendere, purtroppo, ridicoli il castellone di ghiaccio e la macchina invisibile... Per Bond si chiude l’era Brosnan che pure è stata tra le migliori e si avvia un periodo di ripensamento in attesa di un agente più freddo e più duro. Ispirato alla rinascita di un altro eroe classico Jason Bourne. Creato da Ludlum è stato protagonista di romanzi riuscitissimi ma, negli anni duemila (sopravvivendo al suo creatore) ha bisogno di una spolverata che lo renda più attuale. Ludlum è stato sicuramente tra i grandi della narrativa di spionaggio e Jason Bourne è la più famosa delle sue creazioni ma non l’unica a dover essere ricordata. Deceduto nel 2001 da anni proponeva libri privi del mordente di un tempo. Ci penserà il suo agente( Danny Baror per chi lavora in ambiente editoriale...) a gestire il patrimonio narrativo dell’autore defunto. Prima appaiono diversi romanzi firmati tra gli altri dall’ottima Gayle Lynds (il suo Masquerade è purtroppo inedito in Italia ma sicuramente uno dei migliori romanzi di spionaggio del decennio passato). Alcuni sono romanzi a sé che riproducono lo stile originario di Ludlum, altri invece fanno parte di una riuscita serie Covert One che ha avuto anche una versione televisiva interpretata da un Brad Durif fotocopia di Bauer-Sutherland di 24H. Ma il vero colpo che rimette Ludlum sul trono del re delle spie è l’adattamento cinematografico di Bourne Identity con Matt Damon. Ma questo è materiale per la prossima puntata...
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