Piccolo, gracile e indifeso. Solo tra le ali della folla, una barchetta di carta in balia delle onde, eppure a suo modo immobile tra i flutti. Imperturbabile. Tutte le volte che qualcuno gli passa davanti, infrangendo le acque chiare del suo isolamento, il bambino sbatte le palpebre e annuisce serioso. Come se volesse affermare una verità per gli altri inarrivabile, ma per lui, seppure così piccolo, palesemente ovvia.
Un uomo gli corre incontro e lo prende in braccio, indossa una divisa scintillante con i bottoni dorati che brillano al sole. È successo qualcosa di terribile, gli dice, ma questo lui già lo sa. Così si lascia trascinare via, passivo e inerte come un giocattolo rotto, stringendo un peluche logoro e consunto, con un braccino mezzo staccato. Un orsacchiotto. Tutto quello che gli è rimasto, oramai.
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Ogni martedì e giovedì, una domenica sì e una no, che piova o tiri vento, lui è lì. Dopotutto è suo padre. Osservando quel rituale con l’indefessa regolarità di chi si illude di ritrovare, in una sequenza di atti preordinati, una sorta di pacifica tacitazione per i morsi della coscienza. Anche se sa che è pressoché inutile, lui ormai non lo riconosce più da tempo, ogni visita è come quella precedente, ore torpide che trascorrono a giocare a scacchi su una panchina del parco, minuti statici, sempre uguali nella loro minuziosa ripetitività. Le regole degli scacchi, quelle sì, gli sono rimaste impresse nella mente, tutto il resto — chissà perché — è come se fosse scivolato via insieme ai rivoli di sangue di quel giorno infernale. Quel giorno in cui la sua storia è cominciata, ma la sua vita, al tempo stesso, è finita.
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“Guarda che chiamo mio padre. Mio padre è grande come un grizzly di montagna e te le darà di santa ragione, e le darà anche a tuo padre e a tuo fratello.”
Quella volta la maestra non era arrivata in tempo. Il bambino era inerme, il più piccolo della classe, e con qualche altra complicazione in più. Quell’aria attonita da pupazzo meccanico perennemente stampata sulla faccia, quel vizio di annuire e sbattere gli occhi ogni volta che qualcuno gli passava davanti, quella reliquia di orsacchiotto sempre presente, che si tirava appresso come un feticcio. Tutte cose che gli erano costate care, in una classe forse troppo turbolenta di una scuola di periferia. Scherzi, allusioni, prese in giro, qualche spintone di troppo durante la ricreazione e poi infine, l’ultima volta, era stato messo in mezzo dai ragazzi più grandi... Ora era lì, in ginocchio sul selciato, con i denti davanti spezzati e rigagnoli di sangue che scorrevano a macchiare l’orsacchiotto, temporaneamente dimenticato per terra.
“Mio padre è grosso come un grizzly di montagna”, farneticava tra le lacrime e il sangue, “e ti verrà a cercare. Ti ucciderà... ti ucciderà.”
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Quella volta non era morto nessuno però. Ma non fu così la volta dopo, e quella dopo ancora. Un bambino che lo aveva preso in giro, una sera finì sotto le ruote di una macchina, una grossa auto nera che filava a tutta velocità e della quale fu impossibile identificare il guidatore o la targa. Mesi dopo, un altro bambino, mentre erano in colonia al mare, si spinse troppo al largo per essere poi rinvenuto il giorno dopo sgonfio come la gomma di una bicicletta e verde come l’incredibile Hulk. Affogato, dissero le autorità, e passarono dei guai solo gli addetti della colonia, che non erano stati abbastanza attenti. Poi fu la volta di quella maestra che durante un colloquio aveva detto a suo padre che era ritardato, che andava iscritto a un istituto speciale, un posto dove avrebbero potuto prendersi cura di lui. Barbiturici. Una confezione intera. Di certo doveva avere dei problemi personali, delle questioni non chiarite che le avvelenavano l’esistenza, per questo era così esigente con i bambini e si era inventata quella storia assurda. Lui non era ritardato. Era solo un bambino che pensava molto. Che aveva tante cose su cui riflettere e che prendeva la sua vita molto, ma molto sul serio.
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Suo padre era davvero grande e grosso come un grizzly, ed era un poliziotto. Niente e nessuno avrebbe potuto toccarlo. Averlo accanto, sempre al suo fianco, gli faceva sembrare tutto meno duro, meno difficile, e forse anche meno brutto. Di sua madre non sapeva niente, non c’era mai stata, né se ne era mai parlato. Non c’erano donne a casa loro. Solo lui, suo padre, e l’orsacchiotto che vegliava su tutti, e che ogni sera lo accompagnava a letto e teneva d'occhio ogni cosa.
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