Il quarantasettenne scrittore catalano Carlos Ruiz Zafón è un caso da manuale per spiegare come funziona (o non funziona) la macchina editoriale dei bestseller, almeno nel nostro paese.
Autore che alla soglia dei trent’anni va a lavorare come sceneggiatore a Los Angeles, pur mantenendo i contatti con la sua terra d’origine, tra il 1993 e il 1999 Ruiz Zafón scrive quattro thriller per ragazzi con cui non raggiunge la notorietà e che comunque non sbarcano nel nostro paese; nel 2001 scoppia invece in Spagna il caso editoriale de L’ombra del vento, romanzo stavolta “per adulti”, che diventa ben presto un successo internazionale. Ma in Italia la SEI, un anno dopo, sonda timidamente il mercato dei suoi giovani lettori con il libro d’esordio, Il principe della nebbia; risultato: non pervenuto, almeno nei piani alti delle classifiche di vendita.
Solo nel 2004, in pieno ciclone Dan Brown, la Mondadori, che pubblica anche l’autore americano, fa uscire in sordina L’ombra del vento: il passaparola, così come in Spagna, ne decreta il successo e così la casa editrice milanese si trova a dover convivere con due situazioni abbastanza simili: i lettori chiedono avidamente nuove avventure dei nostri due scrittori, ma entrambi non hanno in programma a breve nessun’altra opera; con Dan Brown ci si adatta a tradurre, in attesa del sequel de Il codice Da Vinci, i thriller precedenti; con Ruiz Zafón si attende, tout court, fino al 2008 quando in patria e, questa volta con singolare tempismo in Italia, appare Il gioco dell’angelo, prequel de L’ombra del vento.
Il nuovo, annunciato successo e i tempi di scrittura dilatati di Ruiz Zafón pongono però i dirigenti della Mondadori di fronte a un nuovo dilemma: attendere ancora, rischiando di dilapidare il patrimonio di aspettative costruito copia dopo copia, o rispolverare il “metodo Dan Brown”? Detto fatto, ecco che, a partire dal 2009, facilitato anche dalla risoluzione di una complicata vicenda di diritti d’autore, inizia lo sfruttamento intensivo e disordinato degli inediti italiani dello scrittore catalano: prima Marina, poi nel 2010 Il palazzo della mezzanotte e ora, appunto, Le luci di settembre: tre romanzi concepiti negli anni Novanta per un pubblico giovanile, riproposti con una stringata prefazione dell’autore in collane per adulti, predestinati a un innegabile successo. Ma, visto che di Ruiz Zafón non esiste ormai più nulla d’inedito, cosa succederà l’anno prossimo? Come faranno i lettori a superare quel trauma che ben conoscono i fan dello svedese Stieg Larsson?
Chiedendo perdono per la lunga digressione iniziale – ma talvolta è più interessante analizzare come un romanzo compaia sul mercato più che esaminare cosa racconti – veniamo a Le luci di settembre.
Ambientata nel 1937 in un paesino di una Normandia un po’ fiabesca (Baia Azzurra, Baia Nera, Grotta dei Pipistrelli: uniche località riconoscibili sono, appena citate, la lontana La Rochelle, peraltro non normanna, e la più vicina Mont-Saint-Michel), la vicenda vede come protagonista la famiglia Sauvelle: morto il capofamiglia Armand, sua moglie Simone, con la figlia quindicenne Irene e il figlio minore Dorian, si trasferisce da Parigi sulla costa normanna per fare da segretaria e amministratrice a un bizzarro personaggio, Lazarus Jann, giocattolaio ormai in pensione, che vive nella splendida villa di Cravenmoore in mezzo a un bosco; la famiglia Sauvelle invece soggiornerà in una dependance proprio a picco sul mare, la Casa del Capo.
A questo punto le ben note costanti narrative di Ruiz Zafón hanno modo di dispiegarsi, anche se in qualche modo trattenute dagli argini delle convenzioni della cosiddetta “letteratura per ragazzi”: la natura ora benevola e accogliente ora ostile e minacciosa; la fanciullezza turbata da perdite e/o esperienze incancellabili (vale per i giovani Sauvelle ma anche per Ismael, sedicenne orfano di cui Irene si innamora e addirittura per Lazarus); il delicato erotismo adolescenziale; la presenza, tutta “gotica”, di figure demoniache che mirano alla distruzione della felicità degli umani (e qui fa la sua prima, indiretta comparsa, l’enigmatico Andreas Corelli che i lettori de Il gioco dell’angelo ben ricordano); il tema romantico del faro abbandonato in un’isola e del diario di una donna scomparsa in mare; l’amore per l’avventura dei giovani protagonisti, che vogliono scoprire per quale motivo la cugina di Ismael, Hannah, che lavorava nella villa di Lazarus, abbia perso la vita in circostanze misteriose; il finale, consolatorio ma non banale, che non può essere definito “lieto” a tutti gli effetti, ma che porta a compimento il “romanzo di formazione” dei nostri eroi in erba.
Il libro, pur accattivante, non è però travolgente e sconta il fatto, già abbondantemente delineato nell’introduzione, di giungere al pubblico italiano dopo la delibazione dei romanzi principali di Ruiz Zafón: così il lettore già esperto più che abbandonarsi al flusso di immagini e situazioni, abilmente già strutturate con modalità cinematografiche, si perde nel gioco dell’individuazione degli embrioni della narrativa maggiore dell’autore: ma così vengono evidenziati impietosamente i limiti di una tecnica non ancora smaliziata che mescola influssi faustiani, modelli wildiani e gotici, allusioni alla realtà contemporanea (l’ombra del nazismo sull’Europa degli anni Trenta) assieme all’archetipo avventuroso del mare e del bosco depositari di segreti non sempre accessibili..
Letto dunque nella corretta sequenza cronologica, Le luci di settembre potrebbe dunque affascinare il lettore “vergine” in attesa dei romanzi successivi; gettato così allo sbaraglio nell’arena dei bestseller, il romanzo mostra le sue ingenuità e soprattutto rende più acuta la crisi di astinenza del fan che non vede all’orizzonte ormai nessun approdo.
Non ci resta che attendere.
Voto: 6.5
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