Si esce dalla sala col magone, ma non perché This Must Be the Place sia un brutto film, questo no, ma perché nonostante l’ammirazione sconfinata nei confronti di un regista come Paolo Sorrentino, non si può fare a meno di notare il punto debole del film, una sorta di ingolfamento che emerge quasi subito dalla straordinaria (ebbene sì!) scorribanda visiva che conduce dall’Irlanda agli iùesei, scorribanda che in tanti, troppi momenti, pare girare a vuoto quasi compiaciuta della bellezza degli scorci che la cinepresa, mobilissima, inquadra senza curarsi troppo della coerenza, preferendo una sorta di anarchia visiva che nuoce e non poco alla coerenza del risultato finale (vengono in mente tanti film più coerenti visivamente ragion per cui ne elenchiamo due abbastanza diversi così da fornire, seppure in via approssimativa, un’idea: Apocalypse Now, e The Straight Story – Una storia vera, entrambe con al centro, come il presente del resto, il tema del viaggio…).
In un mondo siffatto, sempre diverso e sempre troppo spiazzante, si muove Sean Penn con una interpretazione che definire immensa e poco mentre commovente (per dedizione assoluta alla causa…) è forse più giusto, il tutto per dar vita alla figura di un ex rock star di nome Cheyenne (total black, cerone e rossetto), una figura la sua, grottesca e catatonica, dall’andatura tanto rattrappita quanto ipnotica, prossima all’inedia eppure stranamente viva, schiacciata dai sensi di colpa (le sue canzoni, volutamente deprimenti hanno portato al suicidio diversi suoi fan…), ma ciò nonostante ancora capace di riscatto sotto forma di un viaggio alla ricerca dell’aguzzino nazista che umiliò il padre recluso in un campo di concentramento.
This Must Be the Place procede così, scisso tra una contenitore mutevole che stenta a prendere una forma definitiva innamorato com’è delle differenze che incontra strada facendo (chiariamo che da questo punto di vista il film può essere annoverato senza troppe difficoltà tra i road-movie, per quanto atipico…) e un contenuto, la performance di Sean Penn, al contrario di assoluta coerenza in ogni istante, al punto che per non perdere la bussola viene spontaneo usare proprio la sua figura come punto di riferimento visivo, un navigatore umano che si segue fiduciosi sperando che faccia il suo dovere (e perlomeno fino ad un passo da un finale che esagera in ottimismo, sembra di sì…).
Magone o non magone, comunque da vedere…
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