E disse (Feltrinelli, 2011), di Erri De Luca, racconta l’incontro tra la volontà divina di dire e il popolo riunito alle pendici del Sinai. Un titolo laconico che racchiude in due parole il mistero della rivelazione della Legge da parte di Dio a Mosé quando, dinnanzi alla comunità intera riunita sotto la montagna, furono scolpiti nella roccia i Dieci Comandamenti.
Anello di congiunzione tra il verbo e l’uomo è Mosé, il primo alpinista, colui che per tre volte si era avventurato su un monte – e qui non si può non rammentare il grande amore dell’autore per le vette e le scalate – da cui non era tornato sempre integro. L’essenzialità di una vita scandita dai bisogni e dal sole, delle sensazioni e dei paesaggi rimanda al sapore pasoliniano di alcuni film storici o epici – penso, ad esempio, a “Il Vangelo secondo Matteo” ma anche alla “Medea” – perché il narrato ci restituisce scorci intatti di spazi, solitudini e silenzi antichi, basta un po’ d’aria: «Era felice al vento, lo accoglieva in ascolto. Era di quelli che afferra una frase dove gli altri intendono solo un chiasso».
E, insieme a questi, i grandi momenti di passaggio che segnano le tappe di una civiltà: «Quella sera il mondo s'interruppe, come un principio di sordità all'orecchio. Succede anche a chi passa alla penombra da una forte luce. Lentamente distinsero il silenzio del primo shabbàt del mondo. Era bonaccia a mare, la pagliuzza che non tremola più, il vapore che sale dritto dalle narici dei bufali, i loro occhi tranquilli: anche per gli animali quello era il primo sabato, ma loro lo aspettavano.
Fu la prima scoperta della conoscenza, senza la distinzione ancora del bene e del male. Quella prima notte profumava di creato spento. L'amore accelerava l'esperienza, faceva succedere tutto in una notte. E che notte, la prima: non erano stati bambini, l'amore fu il primo dei giochi. Passarono dalle risate al solletico, alla concentrazione di frugarsi. Mentre si strofinavano felici si urtarono le labbra. Stupiti si scansarono, poi le riaccostarono, si chiusero gli occhi da soli, la vista e tutti i sensi accorsero alla bocca. Nacque per accidente allegro il primo bacio».
Questo libro di neanche novanta pagine condensate in una scrittura vitale e a tratti lirica, estende il valore antico della parola – un uso costruttivo, comunicativo, tanto diverso dall’uso attuale: dichiarazioni che si lanciano a volte a vanvera, e subito si ritrattano o si negano – dal lemma vero e proprio, analizzato con acribia e sincerità filologica – De Luca ha imparato da autodidatta ebraico (ma anche, aggiungo, yiddish e russo) − alle sue estensioni: la balbuzie del profeta è contrappeso al carico di parole e allegorie che ne conseguiranno. Trovo interessante che uno scrittore come De Luca, che si dichiara senza ostentazioni “rispettosamente non credente” (da un’intervista a "Le invasioni barbariche"), ripercorra i momenti della creazione – anche di questo si parla nel libro, dei primi giorni – ossequiando la sacralità che richiede ogni origine: «Quelle parole avevano fatto l’universo dopo le prime sillabe di annuncio: “Ieì or”, sarà luce. In ebraico quattro vocali e una consonante avevano acceso le notti e illuminato il giorno. L’universo brulicò di scintille. Poi quelle parole avevano chiamato il mondo a farsi, durante i sei giorni della creazione.
Era materia uscita dalla voce della divinità, era sostanza di bellezza perché scaturita da parole. Il monte su cui si fissava la dettatura della divinità era un’arsura rimbombante, dall’alto calava la luce degli inizi».
L’incisione nella roccia è avviata in seconda persona, un “tu” che non lascia scampo e suggella l’alleanza tra popolo e cielo: ognuno sta solo davanti al rivelato, le parole penetrano nelle viscere. I Dieci Comandamenti vengono prima scarnificati al significato etimologico e poi estesi all’indicazione consuetudinaria. In questo libro le donne sono preziose e la condanna al dolore del parto è un errore di traduzione. In questo libro il precetto “Non ruberai” non è limitato all’interesse esclusivo del benestante e, per spiegarci in che senso, lo scrittore napoletano ricorre al Deuteronomio:
«“Non opprimerai un salariato un povero e un misero: dei tuoi fratelli e del tuo straniero che è nella tua terra” (24,14). Rientra anche questo nel rigo “Non ruberai”, perché è rubare il fiato. Un salariato che vende la sua forza alla giornata non è un servo né un forzato. Chi lo asservisce si fa ladro di fiato, come chi rapisce in cambio di riscatto. Se la persona umana è abbassata a merce, a refurtiva, chi la riduce a questo è un ladro».
Infine, come ha risolto De Luca l’ignoto, che su un argomento del genere non può non incombere? Cito la risposta data in occasione di un’intervista rilasciata a Ivo Nardi: «A me l'ignoto piace e non sento il bisogno di abbinarlo a un nome. Sono uno che scala, va in montagna e si tiene compagnia con il vuoto. Ho dimestichezza con l'abisso sotto i piedi. E quello sulla testa, i cieli sconfinati, li ammiro e mi allargano il respiro per la loro bellezza, ma non mi convincono a salirli dentro un aldilà. Io sto con l'aldiquà».
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