Le giostre sono per gli scemi, di Barbara Di Gregorio (Rizzoli, 2011) è la storia di Leonardo e Chicco, fratellastri figli della stessa madre, che portano nella diversità fisica – Leonardo magro e riccio, Chicco obeso – una differenza di temperamento, di predisposizione alla vita e di anelito all’altro: Chicco cerca Leonardo che a sua volta lo elude, a volte lo maltratta, a volte invece se ne occupa nel suo modo disimpegnato, l’unico che conosce e l’unico con cui affronterà l’esistenza.
Il dualismo è una delle chiavi di lettura del romanzo: due i fratelli e due i padri – uno sfuggente e affascinante, l’altro rassegnato e quotidiano–, due le donne presenti, ciascuna con la sua zavorra e la sua inadeguatezza, due le cifre narrative, il realismo e una punta di fantastico che non annulla, ma anzi rafforza il concreto, due infine i leit-motiv che muovono quasi tutti i personaggi lungo le direttrici dell’attrazione e della repulsione: l’avvicinamento e la distanza. L’ottovolante è collante metaforico di questo dualismo tenace, eppure non esente da ambivalenze: oggetto di divertimento, strumento per eccellenza di evasione ed euforia, viene smontato e chiuso in un garage dove ristagnerà per anni, anche se i fratellastri mantengono lucido e splendente il suo ricordo. Appare, scompare e ricompare, luogo privilegiato resta il luna park, quello di anni fa, intatto e stordente, che pare ubiquo perché in ogni luogo è sempre uguale: «Sullo striscione giallo appeso all’ingresso stava scritto che era in assoluto il più grande d’Italia: c’era tanta gente e si facevano soldi a palate, c’erano le montagne russe con tre giri della morte e altre giostre impossibili con strani nomi in inglese; c’era lo zucchero filato in mille colori diversi e un baracchino della porchetta grande quanto un ristorante».
“Le giostre sono per gli scemi” (Rizzoli, 2011) è un’opera che esula dai generi, ma ciò che mi ha colpita è che, pur partendo da presupposti di forte realismo, risente di una contaminazione fantastica. Credo che questo sia un grande merito, sia dal punto di vista dell’originalità sia dal punto di vista del coraggio (gli esordienti sono sempre guardati dalla critica con un po’ più di severità). Com’è nata questa scelta?
Non si è trattato di una scelta quanto piuttosto di una mia necessità. Volevo lavorare sul realismo, e, paradossalmente, lo sforzo di rendere credibili gli elementi fantastici ha rafforzato la mia tensione verso la concretezza assoluta. Il romanzo ha avuto innumerevoli versioni, ciascuna con un suo irrinunciabile elemento fantastico: nelle prime avevamo fiumi di cioccolata, nani dai capelli azzurri, funghi magici, e una moquette che cresceva come erba sul pavimento della stanza di Chicco e Leonardo.
La trama e la territorialità: è il tuo Abruzzo quello costiero che proponi al lettore o è stato reinventato?
I luoghi del libro esistono tutti, a Pescara e dintorni. Alcuni ovviamente li ho un po' reinventati: sul colle della vecchia c'è solo una croce di ferro, la casa di Guerino è stata una mia licenza poetica. Dietro al cementificio non c'è nessuna chiesa. Il quartiere in cui Leonardo incontra William Scaccialamosca somiglia a un sacco di posti, ma non saprei dire quale sia veramente.
La storia struggente dei due fratelli – Chicco e Leonardo – e le vicende minori, spesso tristi, degli altri personaggi si stagliano quasi davanti a luminosi luna park. È come se tu avessi voluto, attraverso le giostre, suggellare comunque il miraggio di una felicità...
Miraggio che resta tale, perché nel libro la felicità è solo un coniglio che va continuamente rincorso. In compenso, nel finale del libro, Chicco scopre la pace che deriva dalla forza di ammettere le proprie debolezze.
È metafora di qualcosa, l’ottovolante di Leonardo?
L'ottovolante è il coniglio. forse. Ma è soprattutto una vecchia giostra, fatta di ruggine lamiere e colori sbiaditi che non brillano più al sole.
Il tuo è uno stile limpido, dialoghi scorrevoli, descrizioni brevi ma efficaci. Una storia che sovverte le regole e tiene fino alla fine. Come ti poni nei confronti dello stile?
Non dica parolacce. Io scrivo i libri, se c'è da parlare di stile (soprattutto del mio) passo la palla ai critici.
É possibile prevedere l’affermazione sul mercato di un romanzo? In base a quali variabili?
Trattare argomenti legati all'attualità è spesso un buon punto di partenza, per un romanzo, ma non credo esistano formule magiche che possano garantirne il successo. Per fortuna.
Prossimi progetti?
Vorrei smettere di lavorare al bar e trovare il modo di mantenermi con la scrittura. Scriverò anche un altro romanzo, prima o poi, perché a un certo punto non potrò farne a meno. Ma fino ad allora nessuna forzatura.
Ci saluti con una citazione dal romanzo?
È troppo chiedere a un autore di scegliere una sola frase per rappresentare tutto il suo libro. Non ce la faccio. Per me sono necessarie dalla prima all'ultima.
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