Le foto sono dietro l’unico angolo, tutte insieme. Ho tappezzato il muro nascosto di tutti i miei affetti segreti. Che cambiano, e dunque cambiano anche le foto. Il tempo passa e anche quello che pensavi fosse parte della tua vita, tutt’un tratto non lo è più. Quando succede sostituisco la foto, prendo un’altra direzione, imparo un’altra faccia. Il muro resta sempre tappezzato. Appendo le foto senza cornice prima di stampare la copia definitiva per me. Le faccio di grandezze diverse, senza sviluppare provini. Costa un occhio della testa, lo so, ma perché devo privarmi di questo piacere? Non si risparmia sulle foto di famiglia. Ogni volta che torno qui, da un po’ di mesi a questa parte, le mie donne mi guardano dal muro. Hanno espressioni diverse, età differenti, tratti, sguardi, sorrisi, silenzi diversi. Sono le mie parenti, le mie figlie putative. Le mie donne cattive: Cordelia e il suo patto del silenzio; Sara che cammina obliqua; Eva, con le mani sul viso, le mani sul corpo, le mani sulla pancia dove non è cresciuto nessun figlio; Grazia, i capelli intrecciati e gli occhi ciechi, metà nella luce e metà nell’ombra. Il sole la colpisce per prima, quando c’è. E Andrea, che guidava il taxi di notte. Queste donne sono le mie custodi. E staranno a vedere cosa succederà ora.
Sono qui perché una madre ha ucciso il suo bambino. Mi hanno chiamata. Qualcuno si ricordava di me, qualcun altro aveva visto le mie foto. Chi sia il vero responsabile di questa convocazione non so: non ho chiesto. Non lo faccio mai, se il lavoro mi interessa. Dopo tutto, cosa mai dovrebbe spaventarmi? Io sono sempre la stessa: Giovanna Salieri, che fotografa i morti e gli assassini, e che non pensa che un infanticidio faccia la differenza. Perchè Giovanna, detta Annie, non è stata madre, e a questo punto è escluso che possa mai diventarlo.
Qualcosa si strappa senza che riesca a ignorarlo.
Nel buio, come sempre, mi spoglio e vado a letto. L’immagine della scena del delitto che vedrò domani mi accompagna dolcemente nel sonno.
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