Gli uomini si confondono di fronte a donne curiose, e si allontanano invasi dalla nostalgia di un tempo in cui non usava che donne ancor giovani si tingessero i capelli di bianco, vestissero giubbotti di pelle, avessero grandi occhi azzurri senza trucco e viaggiassero con una sola morbida borsa. Questa non è l’America. Questo è quasi sud, piccolo e mare.
Il sottopassaggio scivola sotto il treno che riparte, con la bambina sporca e curiosa sopra, sua madre, le sue tante valigie, la sua destinazione lontana. E io risalgo, dall’altra parte, fuori dalla stazione. Il crepuscolo rimane indeciso in questa luce di mezzo, e non ci sono taxi. Un tizio rugoso mi guarda e annuisce, rassicurante.
Così mi siedo sull’unica panchina, apro la borsa, tiro fuori il raccoglitore.
Le foto vivono non solo della luce in cui sono state scattate, ma anche di quella che le illumina ogni volta che le guardi. Una luce che muore: nulla di più adatto per scegliere la foto per la tomba di mia madre.
Invece nella prima foto c’è lui.
Difficile capire quale fosse l’occasione. La particolarità di mio padre era quella di aver sempre la medesima espressione: un mezzo sorriso, uno sguardo limpido, nel complesso il viso di una persona che non pare essere davvero presente. Camminava tra le fate, mio padre, il che è strano, considerato che era stato militare di carriera. Era come se la sua divisa impeccabile lo proteggesse da un contatto vero col mondo. Forse era stata proprio questa incapacità a permettergli di tollerare mia madre. In fondo, ho sempre creduto che si fosse innamorato di una donna continuando a immaginarne un’altra. Questo aveva permesso alle loro due solitudini di coniugarsi. Per quasi cinquant’anni.
Ho chiesto spesso a mio padre perché avesse deciso di sposare la mamma. Rispondeva senza guardarmi. E camminando tra le fate, diceva: -Era la donna per me. Tutto è scritto, bambina.
Tutto è scritto.
Mio padre è morto senza che io lo rivedessi. Ho il suo viso, i suoi occhi azzurri, la medesima distanza dal mondo reale, la stessa incapacità di scegliere la persona che va bene per me. Ci somigliamo come due gocce d’acqua dello stesso catino. Anche così, non sono tornata mentre era malato, né per il suo funerale. In qualche modo, per me, è come se non fosse mai morto. Mi piace pensarlo, per nascondere la colpa e non consumare il lutto.
Un colpo di vento scompiglia le pagine del raccoglitore che ho in grembo. Il tizio rugoso si avvicina e mi si ferma alle spalle. Si fermano anche le pagine, su un’altra foto.
Il giorno della laurea di mio fratello. Avvocato, con gli onori dovuti, anni giusti di università, curriculum coerente, futuro già pronto. La pecora bianca, appunto: l’uomo perfetto, persino noioso nella passione inossidabile per sua moglie e per il suo mestiere.
Noialtri siamo accessori ben congegnati. Tutti vestiti bene, come si doveva, in riga per il primo della classe. Io era già chiaro che io non mi sarei mai laureata, dunque quello era il solo giorno di gloria che mia madre poteva godersi.
-Ti somiglia- dice il tipo rugoso, sorprendendomi con una voce calda e profonda. Non chiede di guardare. Punta gli occhi e e guarda. Un cacciatore di storie. Non sbircia e non si nasconde. Così anch’io mi sento autorizzata a parlargli. –Foto di famiglia. Mio padre. Mio fratello …
Nella foto, mio padre e io siamo fianco a fianco e sembriamo fantasmi gemelli dentro tempi anagrafici diversi. Abbiamo espressioni contigue, lo stesso sogno irrisolto nello sguardo, la medesima piega enigmatica delle labbra, ed entrambi indossiamo una divisa. Mio padre, abbottonato fino al collo, spunta dall’abito di ordinanza come un tulipano tra i sassi. Io, invece, coi miei jeans logori e le scarpe da tennis, sono imbalsamata in un prototipo ribelle. Il mio giubbotto è appartenuto a molte persone prima di me. La borsa della macchina fotografica mi pende indolente dalla spalla. E i capelli sono come ora. Corti, con una ciocca più lunga, sebbene ancora castani.
Vivevo già a Milano da sola, avevo lasciato gli studi, lavoravo in cronaca, e non parlavo coi miei. A mio fratello, tuttavia, ero ancora legata. Non avevo saputo dirgli di no per la discussione della sua tesi. Mi sarei negata qualche anno dopo, il giorno in cui mi avrebbe chiesto di tornare per il funerale di mio padre.
Il tizio rugoso si siede al mio fianco. –Lui è morto- spiego, indicando il volto di mio padre. Lui annuisce
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