Federica Donati, un'anziana contessa costretta su di una sedia a rotelle, vive in una villa situata in una baia incontaminata di sua proprietà. Il netto rifiuto che Federica oppone a chi vorrebbe acquistare la baia per farne un luogo turistico è causa del suo brutale omicidio. Ha inizio così una catena di feroci delitti che vedono coinvolti vari personaggi, alcuni abitanti nella baia, alcuni recativisi in cerca di affari, altri capitati lì per caso… Svedere per Bava, più che un neologismo un omaggio necessario a quello che a tutti gli effetti è stato un maestro del cinema nel senso più ampio del termine, e che se pur largamente ignorato dalla critica nostrana, a differenza di quanto accadeva in Francia e Inghilterra, è oggi unanimemente considerato come il padre di almeno "…due filoni del cinema nostrano: l’horror all’italiana e quel thriller grandguignolesco […] che si associa comunemente – ironia della sorte – al nome di Dario Argento[1]". Reazione a catena (ma anche Ecologia del delitto, E così imparano a fare i cattivi…, quest’ultimo, titolo della sceneggiatura “di lavoro[2]”), se non è la summa del cinema di Mario Bava, è certo un esempio eclatante della sua maestria e della sua inventiva registica, perfettamente calibrata sia negli spazi chiusi sotto forma di atelier di alta moda (vedi Sei donne per un delitto), castelli (Gli orrori del castello di Norimberga, Lisa e il diavolo), abitacoli di auto (Cani arrabbiati), sia negli spazi aperti come questo Reazione a catena dove la Natura assiste impassibile a una lunga e sanguinosa catena dei delitti innescati da quanto di più micidiale la Natura stessa abbia mai saputo concepire, vale a dire un concentrato di avidità e sopraffazione, miscela che lasciata libera di agire non risparmierà (quasi) nessuno, se non due rappresentanti del genere stesso da cui tutto ha avuto inizio, figure, queste dei due sopravvissuti che appaiono per un verso esattamente quello che sono, innocenti votati al gioco per il gioco, per l’altro eredi già pronti a proseguire le gesta dei loro tutt’altro che esemplari maestri… Disposte le pedine sullo scacchiere, a iniziare con la contessa Federica Donati e suo marito Filippo, la chiromante Anna (Laura Betti), suo marito Paolo, entomologo, Alberto e Renata (quest’ultima figlia di Donati), i loro due figlioletti, Simone, il pescatore della baia figlio naturale di Federica, Ventura, un architetto interessato all’acquisto della baia, Laura, la sua amante, e infine due ragazze e due ragazzi capitati nella baia per puro caso, Bava inizia il suo grand gruignol dove il sangue che inizia a scorrere è inferiore solo alle diverse modalità con le quali viene inflitta la morte, il che fa di Reazione a catena una vera e propria miniera di trovate dalla quale finiranno con l’attingere un po’ tutti (in particolare la serie di Venerdì 13 che arriva a copiare alcune scene di sana pianta…). Sul piano della regia Reazione a catena è costruito in particolare su due marche filmiche che prevalgono di gran lunga sulle altre: il fuori fuoco e lo zoom, in particolare a scoprire. La prima sfocatura del film è collocata in quella che di fatto è la prima scena per così dire narrativa del film [3]. Si tratta del mozzo della ruota della sedia a rotelle con la quale è costretta a muoversi la contessa, scena questa che prelude al primo dei tanti delitti che si susseguiranno nel corso del film. Bava procede con sistematicità sfocando l’oggetto ripreso per poi portarlo alla giusta nitidezza così da renderlo percepibile nella sua forma reale. Questo gli consente di lasciare per qualche istante lo spettatore libero di fare congetture su ciò che si nasconde dietro il fuori fuoco, libertà questa, a ben riflettere, estremamente relativa visto che in realtà l’espediente che Bava utilizza è al contrario un modo molto diretto per risucchiare lo spettatore all’interno della narrazione sospendendo per un istante la sua funzione giudicante. Ma il clou nell’uso del fuori fuoco, Bava lo raggiunge in una scena divenuta giustamente celebre. La scena ha inizio con una panoramica a sinistra che scopre la piscina di un cottage abbandonato. Stacco. Appare l’immagine sfocata di un disco biancastro che a prima vista sembra essere il sole al tramonto ripreso attraverso il fogliame del bosco. Lenta messa a fuoco e siamo di fronte a tutt’altra cosa: l’occhio dell’assassino che nascosto tra gli alberi spia l’arrivo dei quattro giovani al cottage abbandonato. L’altra grande marca filmica è, come già annunciato, lo zoom, spesso usato all’indietro, ad aprire, insomma (più raramente l’uso è anche in avanti, a chiudere…). Anche questo procedere pare rispondere a un preciso intento relazionale di Bava con lo spettatore. Se normalmente lo zoom è un procedimento che serve a vedere meglio, il che è vero soprattutto quando viene usato in avanti così da focalizzare l’attenzione su di un particolare, l’uso che Bava ne fa in Reazione a catena sembra rispondere a un altro tipo di scopo, quello cioè di iniziare da una porzione di spazio molto circoscritta per poi via via passare a includerne una porzione sempre più ampia, così da porre lo spettatore nelle condizioni di chi riceve di continuo nuove informazioni delle quali tenere conto [4]. Uno sguardo onnicomprensivo su Reazione a catena pare destinato all’insuccesso, probabilmente in virtù della natura poliedrica dell’opera giustamente considerata da molti come il punto più alto nella filmografia di Bava, frutto anche di condizioni lavorative del tutto particolari assicurate dalla presenza di un produttore come Giuseppe Zaccariello che lasciò libero Bava di muoversi a suo piacimento [5], opera impreziosita anche dalla circostanza che vede Bava firmare di nuovo la fotografia di un suo film (l’ultima esperienza risaliva al ’63 con La ragazza che sapeva troppo). A ogni modo, se si vuole tentare in ogni caso un’esplorazione di Reazione a catena, ci si trova di fronte a elementi eterogenei tra loro che Bava riesce comunque a fondere alla perfezione. Una sommaria ricognizione permette di circoscrivere quello che appare come l’aspetto principale del film, cioè un thriller con al suo interno svariati soggetti assassini che in una sorta di danse macabre si passano il testimone l’un l’altro, testimone che altro non è che il delitto stesso, in un modo che non può fare a meno di richiamare alla mente Agatha Christie, ma che al tempo stesso trova un curioso rimando addirittura nell’etologia dove il termine di reazione a catena (o catena di reazioni…) è utilizzato per indicare una sequenza relativamente rigida di moduli comportamentali ciascuno dei quali comporta uno stimolo per attuare una fase successiva del comportamento, il che a sua volta sembra rimandare a una concezione fortemente tragica dell’azione delittuosa che una volta avviata non conosce più sosta (alla fine si conteranno tredici cadaveri…). Un secondo aspetto è la presenza di una Natura super partes che assiste impassibile allo sterminio di chi puntava, in definitiva, al suo sfregio, mentre un terzo aspetto è rappresentato da una riflessione, a volte seria, a volte beffarda (vedi il finale…), sui diversi modi di infliggere patimenti e morte ai propri simili. Rimane da dire che il fascino indefettibile di Reazione a catena forse risiede proprio nel suo essere più cose nello stesso tempo: thriller, summa di un certo tipo di cinema (molto avanti rispetto agli altri film di quegli anni, soprattutto in termini di rappresentazione della violenza…), apologo sulla malvagità di fondo della natura umana, stile al servizio di una storia, stile e basta; in breve, Bava al cento per cento. Tra i contenuti speciali del DVD va segnalata la sezione con all’interno le interviste ad Alberto Pezzotta, Lamberto Bava, Roy Bava, Dardano Sacchetti e infine Joe Dante.
[1] Alberto Pezzotta, Mario Bava. Il Castoro Cinema, Milano, 1997, pag. 14
[2] Come si apprende da Lamberto Bava, figlio di Mario e regista a sua volta (Macabro, Demoni, Demoni 2, Le foto di Gioia)
[3] Le scene precedenti a questa sembrano di natura puramente descrittiva, composte come sono da rapide panoramiche in esterni della baia, fino ad arrivare ad una curiosa scena con la quale Bava simula attraverso la cinepresa il volo a zig e zag di un insetto che finisce la sua corsa in uno specchio d’acqua…
[4] Va detto che in altri film, per esempio Cani arrabbiati-Semaforo Rosso, Bava farà un uso molto moderato dello zoom
[5] Alberto Pezzotta, cit. pag. 78
Extra
interviste ad Alberto Pezzotta, Lamberto Bava, Roy Bava, Dardano Sacchetti e infine Joe Dante
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