Laureato in Scienze Politiche, vive a Milano dove lavora presso il Politecnico. Dopo un passato in politica - è infatti stato consigliere del Comune e della Provincia di Milano - si è dedicato principalmente alla scrittura e alla ricerca. Ha fondato l’Osservatorio ambiente e legalità di Milano ed è autore di due precedenti lavori d’inchiesta dedicati ad alcune discusse opere pubbliche di interesse nazionale (Mattoni intermodali e Alta velocità ferroviaria) che hanno portato all’apertura di importanti indagini e a una profonda revisione dei progetti già approvati.

Il nuovo lavoro di Enrico Fedrighini riapre un capitolo considerato finora chiuso, ma che non è mai stato chiarito fino in fondo.

 

10 aprile 1991, forse la data più nera della marineria civile italiana. Che senso ha a distanza di 14 anni ritrovarsi ancora con questo mistero?

Innanzitutto scoprire che è un mistero e non un fatto dimenticato. Dimenticato a causa di alcune parole alle quali ognuno ha agganciato il proprio ricordo di questa sciagura: quello che ci è stato raccontato dai media nei primi giorni dopo la sciagura “C’era nebbia, il traghetto aveva una rotta imprudente in una rada piena di navi all’ancora, una tragica fatalità”… L’ennesima tragica fatalità.

Infatti furono moltissime le illazioni, soprattutto durante i primi concitati giorni delle indagini: “mercoledì di coppa,  Brondby – Roma, Juventus – Barcellona, Inter - Sporting Lisbona in TV, schermi accesi sul ponte di comando…” Perché sempre l’errore umano al centro di questa tragedia?

Forse perché era la spiegazione più semplice…

La cosa più impressionante è stata il percorso di riscoperta degli atti, delle carte e dei documenti, che parlavano da soli, bastava leggerli…

Purtroppo molti di questi atti e molti documenti importanti sono venuti fuori a distanza di anni, quando ormai la traccia era segnata.

L’inchiesta sommaria e i successivi due gradi del processo si erano ormai incanalati verso “la tragica fatalità; nebbia, rotta imprudente e perfino la partita in TV sono le cause da imputare al caso Moby Prince”… Poi leggendo le carte, le carte parlano… anzi urlano… Dicono che non c’era nessun monitor televisivo sul ponte di comando; dicono che l’avvisatore marittimo e molti testimoni hanno riportato che la rotta del traghetto era tutt’altro che imprudente e molto diversa da quella ipotizzata.

Il centro meteo dell’aeronautica di Pratica di Mare e la Criminal Pool documentano la mancanza di nebbia al momento dell’impatto.

E quindi nessuna “tragica fatalità”.

Probabilmente la nebbia, la tragica fatalità e l’accusa d’imprudenza nei confronti di chi non può più difendersi, serviva a nascondere altro.

Giovanni Minoli, nella prefazione al suo libro, ha definito Moby Prince: un caso ancora aperto “vero giornalismo d’inchiesta”. Che tipo di risposta possiamo, quindi, trovare all’interno della sua ricerca?

La risposta la si può trovare nelle condizioni della rada di Livorno durante quella infausta sera.

Il porto era più simile a una darsena militare americana che a un porto civile e se non capiamo esattamente ciò che è accaduto, andando in fondo alla questione, tragedie come questa rischiano di ripetersi.

E’ un percorso di giustizia e verità che non riguarda solo e principalmente i famigliari delle 140 vittime, ma riguarda uno stato civile, riguarda i diritti di ogni cittadino di sapere esattamente che cosa è successo.

Gli atti e le carte di tutti coloro che hanno lavorato e indagato seriamente, dimostrano che il caso è ancora aperto.

Archiviata però la vicenda giudiziaria, si potrebbe solo ai più alti livelli istituzionali, come per esempio la commissione parlamentare d’inchiesta, ottenere quei documenti che sono sempre stati sistematicamente negati all’autorità giudiziaria.

L’Italia ha già vissuto casi simili, per esempio Ustica. Siamo forse il paese dell’ipotesi di complotto?

Io non faccio ipotesi di complotto. Dico esplicitamente che non c’è stato alcun tipo di complotto: niente Spectre, niente grande regia, però sin dall’inizio, per diverse ragioni, si è puntato su un basso profilo.

In che senso?

Io non ho avuto delle rivelazioni da misteriosi personaggi e informatori, semplicemente ho letto le carte e gli atti prodotti.

Purtroppo, come già detto, molti atti sono arrivati tardi, quando non vi era più la volontà di ribaltare tutto il lavoro fatto fino a quel momento.

Molto spesso, purtroppo, le cose avvengono per colpevole inerzia. Non c’è stato forse nessuno che abbia mentito, ma non tutti hanno detto la verità fino in fondo. Spesso basta questo atteggiamento riluttante per allontanare il percorso della ricerca della verità da quello della giustizia.

Credo quindi che vada semplicemente riaperto il caso, perché il caso Moby Prince è tutto fuorché chiuso.

Questo è un libro che non dà certezze assolute, ma pone tutta una serie d’interrogativi che attendono di avere risposta.

Il primo di questi è come mai la prima inchiesta sommaria, che aveva a disposizione mesi di tempo per fare chiarezza, sia stata chiusa in soli undici giorni.

Perché fin dalla prima fase dell’inchiesta non è mai stato richiesto un tracciato radar della rada di Livorno?

Ricordiamo che l’alto Tirreno e la zona di Livorno in particolare, è una delle più presidiate dai sistemi di controllo e dalle telecomunicazioni militari. C’è infatti la base americana di Camp Darby, e vicino c’è La Spezia, che insieme formano un sistema integrato di controllo.

Rimane inspiegabile perché un tracciato radar non sia mai stato richiesto e perché in seguito sia sempre stato negato l’accesso a questi documenti.

 

Concludiamo come se ci trovassimo al termine di una breve sinossi. Perché bisogna leggere questo libro?

Perché temo che ci parli di un pezzo della nostra storia ancora molto attuale e mai chiarito.

Posso dirvi perché l’ho scritto. Perché amo questo paese e lo vorrei un po’ più civile.

Vorrei un paese dove qualcuno ogni tanto si assumesse la responsabilità di qualcosa.