Manuel ride
Manuel ride.
È una risata sgangherata, con un retrogusto disperato, c’è dentro un po’ di tutto, l’alcol che ha in corpo, la sniffata di coca che ci siamo fatti in casa di Arrigo, la voglia di spaccar tutto perché Valentina l’ha mollato per mettersi con Marco.
E c’è anche l’incazzatura che si è preso perché suo padre gli ha detto che o si mette seriamente a studiare o lo manda a scaricare cassette ai mercati generali a calci nel culo, che lui mica si alza tutti i giorni, e tutti i sacrosanti giorni sale sul quel camion della raccolta rifiuti per mantenere uno che non ha voglia di fare un cazzo.
“Ma ti rendi conto, il vecchio stronzo…?” – dice Manuel, e si pulisce il naso con la manica del giubbotto jeans, col fiato che gli esce bianco dalla bocca per il freddo.
“Ma dai, che l’avrà detto così, tanto per dire…” – dico, guardando in alto, mentre incomincia a venire giù una pioggia sommessa ma penetrante e siamo senza ombrello, perché tra di noi portare l’ombrello quando piove è come mettersi al collo un cartello con su scritto “FROCIO”.
“Ma ti rendi conto?” – ripete Manuel, come se non avesse altro in testa e più lo dice più la rabbia gli sale.
“Dai, che ti frega.” – dico per calmarlo – “Andiamo a casa che è tardi, che domani dobbiamo andare a scuola e poi mi sta venendo da vomitare.”
“Vecchio stronzo!” – insiste Manuel e saltella sulle gambe come un boxeur, e tira un calcio a una lattina di birra che rotola, che si nasconde nel buio, che si lascia dietro un’eco di cosa vuota.
Camminiamo uno vicino all’altro. Ogni tanto Manuel si ferma, pesca dentro la sua rabbia, prende a calci tutto quello che incontra.
All’inizio non ce ne accorgiamo, non lo vediamo. Solo un berretto di lana rossa che spunta da una pila di cartoni e un paio di scarpe rozze, scalcagnate.
“Chi c’è lì sotto?” – dice Manuel.
Incomincia a togliere i cartoni uno dopo l’altro, a buttarli di qua e di là con gesti sempre più febbrili, malati d’impazienza, pieni dell’onda cattiva della coca.
Il vecchio, svegliato di soprassalto, sbatte le palpebre, cerca di mettersi a sedere. Manuel raccoglie da terra un ramo di platano e lo stuzzica come si fa con i vermi, che quando li tocchi si contorcono forsennati.
Anche il vecchio si contrae, impaurito. Manuel ride e si fa più insistente, più manesco via via che l’uomo appare indifeso.
“Piantala. Lascialo stare.” – dico con aria stanca.
“Perché?” – fa Manuel – “Questo vecchiaccio assomiglia a mio padre. Gente così non dovrebbe essercene al mondo. E nemmeno di stronzi come mio padre dovrebbero essercene al mondo, e nemmeno del tipo di Marco, che adesso, magari, mentre siamo qui con questo vecchio, in questa città merdosa, sotto questa pioggia del cazzo, si sta scopando Valentina.
“Dai… lascialo in pace, è un poveraccio.” – insisto.
Manuel prende a saltellare sulle gambe come fa quando giochiamo a calcetto e deve battere una punizione. Sferra al vecchio un colpo micidiale. Quello si accartoccia e mugola per il dolore che sembra un cane randagio.
“Cazzo fai?” – cerco di trattenere Manuel per una manica, ma lui continua a colpire.
Il vecchio si difende come può, si copre la testa col braccio, senza dire una parola.
“Lasciami…” – dice Manuel e mi dà uno spintone che mi fa cadere per terra.
“Piantala!” – grido – “Lascialo in pace! È solo un poveraccio.”
“Non scassarmi.” – reagisce rabbioso Manuel.
È a quel punto che si accorge della bottiglia di whisky. Ride cattivo, versa sul vecchio quello che c’è dentro. Prende nella tasca dei jeans l’accendino e gli dà fuoco.
Il vecchio si contorce, urla, gli occhi pieni di terrore e d’ombra. Dopo un po’ non dice più niente, è un fagotto che brucia nella notte piovosa e la rischiara.
Quando l’aria intorno si riempie della puzza di carne bruciata non ce la faccio, mi metto a vomitare.
Manuel ride, mentre si apre la patta dei jeans e piscia sul vecchio.
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