Un genere poco sviluppato ma molto apprezzato della cinematografia è quello che si usa definire “film da camera”, intendendo generalmente una pellicola che abbia un ristrettissimo numero sia di personaggi che di location. A parte rare eccezioni (come alcuni titoli di Ingmar Bergman), perché un film sia in grado di gestire bene queste forti limitazioni deve essere tratto da una pièce teatrale, da un lavoro cioè che si basi solo su soggetto e sceneggiatura, in mancanza ovviamente degli “abbellimenti” di cui invece un film può godere.

Come si diceva, questo tipo di cinematografia non vanta una grande scelta di titoli, probabilmente perché spesso il grande sforzo artistico alla sua base non viene ripagato da un corrispondente successo al botteghino. Vorremmo qui presentare quattro titoli legati da un elemento comune: la presenza di un fenomenale attore come Michael Caine.

Si parte nel 1972 con un grande classico del genere: “Gli insospettabili” (Sleuth), diretto da Joseph L. Mankiewicz (alla sua ultima opera registica) e sceneggiato da Anthony Shaffer (1926-2001), commediografo britannico autore dell’acclamata pièce teatrale originale. Shaffer, va ricordato, ha lavorato per il cinema sia sceneggiando due celebri film tratti da Agatha Christie (“Assassinio sul Nilo” e “Appuntamento con la morte”) sia come soggettista (“Sommersby” con Richard Gere).

Milo Tindle (Michael Caine) è un giovane parrucchiere che viene invitato dal celebre scrittore di successo Andrew Wyke (Laurence Olivier) nella sua casa, con annesso giardino-labirinto. Lo scrittore, conscio che il giovane è l’amante della moglie, trascina il suo ospite in un vortice di idee “gialle” più o meno pericolose: non sveliamo altro per non togliere il gusto della sorpresa a chi non avesse visto il film!

Scontro di titani: Michael Caine e Laurence Olivier
Scontro di titani: Michael Caine e Laurence Olivier
Gli insospettabili” è una pellicola assolutamente sorprendente: riesce allo stesso tempo a contravvenire ad ogni regola filmica eppure a seguirla fedelmente. Interpretato esclusivamente da due soli personaggi ed ambientato interamente all’interno di una casa, il film sembra l’emblema di tutto ciò che non è cinematografico: si potrebbe pensare che a questo punto sarebbe bastato puntare una telecamera in un teatro. Invece il regista Mankiewicz ha saputo ribaltare la situazione creando un prodotto visivo di primissima scelta, ricco di tutte quelle tecniche registiche che fanno un film una gioia per gli occhi.

Alla scarsità di ambienti è stata contrapposta una accecante ricchezza di scenografie: giochi, marchingegni, bambole, pupazzi, teatrini, burattini e decine e decine di altri oggetti che rendono gli ambienti talmente ricchi da far dimenticare che le due ore di film si svolgono in non più di tre location diverse! Molto spesso presente nell’inquadratura una scacchiera: sebbene i due protagonisti non vi si siedano mai, è lo stesso un perfetto simbolo della partita a scacchi metaforica che giocano durante tutta la storia. (Non a caso una locandina d’epoca mostrava Caine e Olivier col corpo di pedine scacchistiche, guidate da grandi mani su una scacchiera, e recitava: «In questo gioco mortale, chi è il giocatore e chi la pedina?»)

La sceneggiatura è serrata in modo ineluttabile: quasi non esistono momenti di silenzio, quasi non esistono attimi in cui lo spettatore possa rendersi conto che non c’è nessun altro in scena. Non una sola virgola dei dialoghi potrebbe essere cancellata senza ripercussioni: tutto è studiato per sopperire alla mancanza degli altri personaggi che di solito arricchiscono una pellicola cinematografica.

Gli insospettabili” è un pezzo di bravura che difficilmente potrebbe essere replicato... anche se ci si è provato!

 

Sleuth - Gli insospettabili
Sleuth - Gli insospettabili
Nel 2007, infatti, l’attore e regista irlandese Kenneth Branagh decide di girarne una propria versione. Lo sceneggiatore originale Anthony Shaffer è morto nel 2001, quindi non può rimettere mano al proprio testo: il regista affida così la sceneggiatura niente meno che ad Harold Pinter, insignito da appena due anni del Premio Nobel per la letteratura. Il celebre drammaturgo londinese non scrive un remake del lavoro di Shaffer: ne crea una particolarissima rivisitazione, che anzi può essere chiamata una “variazione su tema”.

La prima e più deflagrante differenza di cui lo spettatore si accorge riguarda la scenografia: tutto scompare! Niente più giochi, né pupazzi, né scacchi, né burattini: la casa di Andrew è un castello nudo e vuoto, dominato da invisibili cavi elettrici che ne comandano ogni funzione; al di là di un letto, di un armadio e di un televisore non scorgiamo altri mobili, né abbellimenti, né altro: solo fredde pareti che ospitano un uomo freddo. Andrew Wyke infatti non è più il sanguigno nobile di campagna del primo film, bensì uno scrittore freddo e “moderno”: è sempre pieno di sé, però, e tiene addirittura in casa una gigantografia del suo volto e dei titoli dei suoi libri! (Olivier invece aveva tante piccole sue foto, incastonate nei premi letterari ricevuti.)

Wyke è un megalomane sì, ma in modo particolare: sembra che l’aver la possibilità di avere tutto lo abbia portato a non provar più gusto in nulla. La sua automobile è enorme ma ferma, la sua casa è costosissima ma vuota. Tiene in casa un abito, comprato per la moglie, di inestimabile valore... che se ne rimane addosso ad un manichino.

In alto: Kenneth Branagh e Jude Law; in basso: Michael Caine e Harold Pinter
In alto: Kenneth Branagh e Jude Law; in basso: Michael Caine e Harold Pinter
Queste differenze, che potrebbero essere definite esteriori, hanno un significato ben preciso, e lo si capisce quando iniziano i dialoghi: anche la sceneggiatura ha subìto i forti tagli imposti alla scenografia. Scomparsi i dialoghi serrati del primo film, in questo “Sleuth - Gli insospettabili” abbiamo solo frasi ridotte all’osso, domande secche seguite da risposte monosillabiche. È un gioco al ribasso che fa pensare allo spettatore di star assistendo al “riassunto” del film del ’72 più che al suo remake: d’altronde condensare 138 minuti in 86 non è impresa facile.

Eppure questa impresa non è indolore: dopo due terzi di film in cui Pintor segue il percorso dei suoi predecessori, la musica cambia... Preferiamo non approfondire oltre questo punto per non togliere ai futuri spettatori nulla di un film che, in fondo, si basa molto su colpi di scena e sorprese. Basti specificare che Pintor prende in mano la sceneggiatura dell’ultima parte del film in modo pesante e compie alcune scelte davvero molto discutibili (non nei contenuti ma nella resa stilistica).

Ad accompagnare un film che non può dirsi riuscito, ma che comunque ha alcune ottime frecce al proprio arco, c’è la musica dell’inseparabile Patrick Doyle, compositore che accompagna Branagh dagli inizi della carriera registica. Il suo tango è essenziale, come la scenografia e i dialoghi del film, eppure ricco e assolutamente calzante con la recitazione degli attori: addirittura nella colonna sonora del film (molto più apprezzabile del film stesso!) sono incastonate nei brani delle frasi del personaggio di Caine.

 

Trappola mortale
Trappola mortale

Lasciamo i personaggi di “Sleuth” per incontrare, nel 1982, “Deathtrap”.

Rispetto ai primi due film presentati, “Trappola mortale” di Sidney Lumet vanta almeno il doppio dei personaggi, sebbene riduca drasticamente il numero delle location: l’intero film, ad esclusione del prologo e dell’epilogo, è ambientato fra il salone e la camera da letto dei protagonisti.

La sceneggiatura è affidata alla drammaturga e sceneggiatrice Jay Presson Allen, già abituata alla riduzione cinematografica di una pièce teatrale visto l’eccellente lavoro svolto nel 1972 con “Cabaret” (che le valse una candidatura all’Oscar). La pièce originale “Deathtrap” è firmata da un nome di spicco del brivido, cioè Ira Levin: il drammaturgo e romanziere newyorkese celebre per romanzi come “Rosemary’s Baby” (1967) e “I ragazzi venuti dal Brasile” (1976), divenuti poi altrettanto celebri pellicole cinematografiche.

Michael Caine torna ad interpretare uno scrittore, Sidney Bruhl: anzi, un commediografo, che però non riesce più a produrre dei lavori di un qualche spessore. Un giorno riceve un copione di un lavoro teatrale (dal titolo “Deathtrap”) scritto da un suo allievo e fan, Clifford Anderson (un Christopher Reeve in stato di grazia, già famoso per aver interpretato i primi due film di Superman): come fece Wyke per Tindle, lo scrittore affermato invita nella propria casa lo scrittore esordiente, con intenzioni davvero poco oneste... Anche qui preferiamo non svelare nulla, malgrado si tratti di un classico: vogliamo che chi ancora non l’avesse visto si possa gustare a pieno ogni singolo colpo di scena che la trama ha in serbo per lui.

Michael Caine e Christopher Reeve
Michael Caine e Christopher Reeve
Ai dialoghi, stavolta, è chiesto di sopperire ad ancora più mancanze, visto che anche la scenografia non spicca né per quantità né per qualità: fa eccezione lo studio di Bruhl, con le pareti letteralmente tappezzate di armi e strumenti d’ogni tipo e modello. Il compito dei dialoghi, comunque, è pienamente riuscito.

La presenza di tre personaggi per gran parte della pellicola aiuta l’intrecciarsi dei dialoghi e rende il film particolarmente scorrevole e denso: il susseguirsi dei molti colpi di scena, più di quanto uno spettatore attento possa anticipare, rende tutta la storia gustosa e soddisfacente. Proprio come Caine, Reeve non è un attore dalla grande fisicità né dalle espressioni esagerate: sullo schermo entrambi danno una sonora lezione a quegli attori che hanno bisogno di agitarsi per mostrare agitazione e strillare per mostrare rabbia. La loro è una recitazione di occhi e di bocca: nessun muscolo superfluo viene utilizzato per dimostrare le emozioni, né alcuna smorfia viene messa in atto a caso. È una lezione che tanti nuovi attori dovrebbero seguire.

 

Rumori fuori scena
Rumori fuori scena
L’ultimo film che presentiamo potrebbe essere considerata un’eccezione, ma è una di quelle che confermano la regola: dopo film a ristrettissimo numero di attori, ecco una pellicola che invece di attori sciaborda. Stiamo parlando di “Rumori fuori scena” (1992) di Peter Bogdanovich.

Noises Off”, questo il titolo originale, è la trasposizione cinematografica (curata da Marty Kaplan) della pièce omonima del 1982 firmata da Michael Frayn, giornalista, romanziere ed autore televisivo londinese. Già nel 1983 il suo “Noises Off” arriva nei teatri italiani con il titolo “Rumori fuori scena”, per cura della compagnia di Attilio Corsini, ed è stata più volte replicata nel corso degli anni a seguire.

Il film è ovviamente di tutt’altro registro rispetto a quelli fin qui presentati: non è né un giallo né un thriller, bensì una divertente e divertita “commedia nella commedia”, una storia che ironizza proprio sulle comiche vicissitudini di allestire uno spettacolo comico. È un all stars movie di tutto rispetto, in cui ogni singolo partecipante è un attore consumato anche se di origini diverse. Dagli attori di formazione teatrale a quella televisiva a quella prettamente filmica: al di là delle origini, stiamo parlando di attori di altissime qualità recitative.

Il cast del film
Il cast del film
Lloyd (Michael Caine) è il regista di una disastrata commedia che deve barcamenarsi fra le personalità contrastanti dei vari attori, come Garry (interpretato dal compianto John Ritter) o Freddy (di nuovo Christopher Reeve). Tre parti diverse del film (prove, dietro le quinte e infine sul palco) per presentare tre diversi di modi in cui una compagnia teatrale può andare a picco.

Quattro film che non vantano né effetti speciali né 3D, che non presentano scene d’azione né sparatorie mozzafiato: eppure inchiodano lo spettatore dalla prima all’ultima scena. Questo genere di film è spaventosamente più impegnativo di un qualsiasi successo di botteghino: per il semplice motivo che per farlo bisogna essere dannatamente bravi!