Apparenze
Peccato. Quell’articolo non era male. All’uomo sarebbe piaciuto commentarlo con i colleghi davanti a un bicchierino, lì al bar di fronte. Del resto, gli mancava così poco alla fine del turno. Eh, sì! Fu un vero peccato che fosse il suo stesso sangue, con uno zampillo che arabescò l’intera pagina, a impedirglielo. Poi l’insegna del Caffè Reale divenne un lampo, per lui l’ultimo bagliore. La testa ciondolò e si abbandonò sul volante, sopra il giornale; il sangue si mischiò all’inchiostro e, filtrando, stillò una mistura densa e grigiastra. Dal clacson partì un lamento acuto, una sorta di fado che immalinconì l’intera piazza. Invocando il cielo, fu infine don Paris, con un sampietrino ben assestato sul radiatore, a zittirlo.
Senza divisa e infagottato in un cappotto scuro, che lo arrotondava come un gomitolo di lana mal cardato, il maresciallo capo Ripoti arrivò un paio d’ore dopo. Era prossimo ai sessanta, Emilio Ripoti, gambe corte, testa rotonda: un tracagnotto dall’aria irritabile. Di ritorno da Roma, si scusò per il ritardo con il colonnello Satta e il Sostituto Procuratore dottor Vitale; ma i novanta anni di un vecchio zio della signora Arnalda, la moglie, confidò, erano un’occasione a cui non poteva proprio mancare. Il delegato della Procura tagliò corto e, come suo solito, raccomandò velocità e discrezione. Si guardò poi intorno concedendo a tutti una stretta di mano, salì sull’auto di servizio e se ne andò. Due minuti dopo, l’ufficiale fece la stessa cosa. Ripoti scosse la testa, infilò le mani in tasca e con passetti nevrotici sembrò rotolare spedito come una boccia verso il pallino.
Il “pallino” era un povero cristo che conduceva corriere tra Roma e provincia. Un morto ammazzato. Prima di avvicinarlo, il maresciallo accostò il capitano Fraschetti, dei RIS di Roma, con i suoi già alle prese con pennelli, provette e polverine. Scambiò con lui due battute, accese una sigaretta, trattenne il fiato e infilò la pelata nell’abitacolo del pullman. Gli schizzi di sangue erano dappertutto. La vittima era riversa sul volante; il giornale ridotto a una confusa macchia rossonera, un po’ lucida.
Il modus operandi parve l’unica certezza. Non lasciava dubbi: troncamento della carotide. Un lavoro piuttosto grossolano. Rabbioso. Ripoti si rivolse all’ufficiale medico. L’ora del delitto, approssimò questi indicandogli il lembo di carne incrostato di grumi, poteva risalire più o meno a quando l’aveva scoperto il prete, alle ventidue. Fu poi la volta di quelli della mortuaria, che cominciarono a darsi da fare proprio nel momento in cui la marcetta scozzese del suo cellulare si fece sentire. Era Mantovano, il brigadiere, il suo vice: novità interessanti. Una testimone aveva segnalato la presenza sul luogo del delitto di uno strano tipo. «Un tipo sospetto». Il maresciallo sbuffò e volse lo sguardo sull’orrore impresso negli occhi della vittima, che andavano scomparendo dietro la zip della body-bag. Diede l’ultima tirata e lasciò scivolare la sigaretta sull’acciottolato.
«Cercatelo!», ordinò al brigadiere, mentre un funghetto di fumo disegnava l’aria.
Il sospettato, a cavallo della sua moto, fu fermato al bivio con la Statale e subito trasferito in caserma. Entrò nella saletta degli interrogatori alle due e cinquanta del mattino. Sulla trentina, i capelli qua e là spruzzati di rosso raccolti in un codino da un laccio di cuoio lucido. Un tipo che non passava certo inosservato, con quel viso affilato, il naso da pugile e gli occhi sottili, di un grigio molto chiaro. Tenne la testa bassa finché non entrò l’avvocato: un pupazzetto infiocchettato tirato giù dal letto per assisterlo. Si presentò sciorinandogli i diritti e i sospetti mossi a suo carico. Lui rimase in silenzio. Il legale alzò gli occhi e dalla cartella prese il Codice e un block-notes inanellato da una spirale bianca: sulla copertina Topolino e Minnie si baciavano, inghirlandati di cuoricini. Lui non si muoveva. Solo le mani, di tanto in tanto, andavano a sfregare quel naso camuso, appiccicato sul viso come la zampa di un palmipede.
Era lì, dunque. Una testimone aveva dichiarato di averlo riconosciuto. E a colpire la cassiera del Caffè Reale non erano stati quegli occhi madreperlacei, ma le mani. «Quando ha preso il resto dal piattino ho creduto volesse far sparire tutta la cassa!». Certo, forse aveva un po’ esagerato, Loredana Belli, “la Lilly”, ma quelle mani erano di sicuro fuori del comune. Dall’apparenza volgare, non erano solo grosse, larghe come la traversa di un letto, ma pallide come mani malate, di un colore che non corrispondeva alla loro dimensione. Sembravano dotate di vita propria, capaci di fare qualsiasi cosa. Mani pericolose, in sostanza.
Le indagini iniziarono quindi da lui, Davide Ricotti. Il ragazzo, trentadue anni, residente in paese, faceva il carrozziere. Era uno di poche parole. Da quando lo avevano fermato e trattenuto, non aveva fatto altro che confermare le proprie generalità e l’estraneità ai fatti. Il principale, nella carrozzeria, dichiarò che a lui Davide non aveva mai creato problemi. Sempre puntuale. Preciso. Educato. Gli rimaneva difficile crederlo un assassino.
Eppure.
Eppure per Ripoti, per la sua squadra di segugi, per il colonnello Satta e il Sostituto dottor Vitale, e soprattutto per l’opinione pubblica, sembravano non esserci dubbi sulle responsabilità di quel tizio. Alla testimonianza, per di più, si erano aggiunti elementi che non facevano altro che allinearsi. Forse anche troppo.
La domenica successiva, dopo la Messa, il maresciallo capo fu avvicinato da Riccardino. Il balbettante sagrestano, tormentando uno straccio lurido, gli riferì che don Paris avrebbe voluto parlargli. Emilio si scusò con Arnalda e, con il cappello ancora in mano, raggiunse l’altare, si genuflesse, e s’affaccio nella sagrestia.
«Mi cercava, Padre?», domandò sulla porta. Le tre lasagnette argentate sulle spalline riverberavano con le decine di lumicini che invadevano la sagrestia. Quello ai piedi di una Madonnina scrostata che calpestava la testa di una serpe era il più scintillante.
Don Paris, di schiena, davanti a un santo martire ligneo, inquietante come il Monte Calvo di Musorgskij, stava ancora dismettendo i paramenti. Alla voce del sottufficiale si voltò e questi, guidato dalla vocazione e dall’uniforme, accennò un “Attenti!” che le orecchie del parroco registrarono un attimo prima del suo accomodante sorriso.
«Oh! Carissimo!». Chiamava tutti così, il don, dando del tu. «Prego», lo invitò, «accomodati». Gli indicò una cassapanca decorata dai tarli. «Scusami, anche con Arnalda, ma volevo chiederti come andava con il piccolo Davide».
Ripoti aggrottò le sopracciglia, uno tsunami di rughe partì dalla fronte e gli attraversò la testa.
«Il piccolo Davide?», chiese a sua volta. «Il possibile omicida?», evidenziò. Il religioso agitava la testa. «Beh, se è della sua anima che si preoccupa, ha ragione, Padre…». Spalancò gli occhi allargando le braccia. Cosa avrebbe dovuto aggiungere? Che il ragazzo aveva scritto in faccia “serial killer”?
«Ma caro Emilio! Via, su! Sono solo apparenze!». Il prete non smetteva di agitare quel testone canuto.
«Ma quali apparenze, Padre? Non ha un alibi. E a partire da quella test…».
«Ma cosa c’entra?!». La testa del don, di colpo, sembrò scacciare una mosca. «Se è per questo, anch’io ero lì quella sera. E allora?».
«E no, Padre!», s’irrigidì Ripoti. «Non mi dica che non ha saputo il resto?!».
Il maresciallo non si riferiva alla testimonianza della Lilly o alle impronte delle Nike di Ricotti rilevate intorno al pullman. E nemmeno ai guanti in lattice indossati dall’assassino, gli stessi usati dai carrozzieri. No. L’allusione, in verità, riguardava l’arma del delitto. Il rasoio col manico d’osso che era stato trovato vicino alla fontana, in piazza. Era pur vero che non recava alcuna impronta, come avevano verificato gli uomini di Fraschetti; ma l’appartenenza al Ricotti era stata comprovata dalla familiarità del cromosoma Y ricavato dai residui epiteliali reperiti a ridosso dell’impugnatura. Inoltre, durante l’ultimo interrogatorio, il ragazzo, oltre a riconoscerlo come proprio («Era di mio padre», aveva detto), non aveva affatto cercato di discolparsi dall’atroce uso che ne era stato fatto. Si era limitato a dire: «È da un po’ che non lo trovavo». Tutto qui. Neanche quella specie di avvocato che lo patrocinava era riuscito a tirargli fuori qualcosa di più.
«Insomma, Padre, cosa vuole che le dica? Se il suo “piccolo Davide” non si decide a raccontare quello che sa, il resto della sua esistenza sarà tutto a spese del contribuente! Ecco, come va!». Concluse increspando la bocca. Prese il berretto e fece cenno di alzarsi. La mano di don Paris lo bloccò e lo sospinse nuovamente verso la cassapanca; gli sedette accanto e un inquietante scricchiolio anticipò il più pacioso dei sospiri.
«Vedi, Emilio», congiunse le mani incrociando le dita. «Tu è da poco più di sei anni che sei qui…». E tirò ancora un sospiro. Quindi raccontò a Ripoti la storia di Davide Ricotti. Il termine “pecorella”, riferito al ragazzo, lo adoperò una sola volta. Quando descrisse la sua infanzia e quella della sorella, raccontandogli di come, dal giorno in cui rimasero orfani, furono cresciuti dai parenti e dalle istituzioni. E non gli risparmiò, il prete, le difficoltà che i fratelli patirono fin quando, una volta maggiorenni, decisero di ritornare in quella pettegola provincia dove, malgrado tutto, giunsero a costruirsi una dignitosa esistenza. Davide, dopo un “difficile” percorso scolastico e mortificanti lavoretti, riuscì come carrozziere; mentre Marzia, la sorella, arrivò addirittura a maritarsi. Con Michele – così si chiamava il marito –, ebbero anche un figlio, Andrea, che però, da quando il padre era finito sotto i cilindri di un laminatoio impazzito nella fabbrica in cui lavorava, stava più con lo zio che con la madre. Lei, infatti, era obbligata, dopo la disgrazia, a lavorare come badante presso una vecchia signora. A Roma. «Qualche volta», chiosò rammaricato don Paris pieghettando le guance, «se lo porta con sé».
Ripoti ascoltava. Poi alzò il dito, interrompendolo. «Ho capito, Padre». Si schiarì la voce e maltrattò imbarazzato il cappello. «Ma a carico di quel ragazzo c’è un’indiscussa sequela di indizi...».
«Emilio!», riprese il don dandogli un colpetto sulla banda rossa dei pantaloni. «Se ti sto raccontando tutto questo è perché tu sappia con chi hai a che fare! Davide è un bravo ragazzo! E non lasciarti ingannare, come molti, dall’aspetto e dal suo impertinente silenzio. È solo un introverso. Credimi. La sorella e il nipote sono tutto per lui! E non hai idea di quali sacrifici abbia fatto e faccia per loro… No, no, Emilio, segui altre piste. Provaci, almeno. Ti prego».
«Segui altre piste. Ti prego». Le parole del parroco gli erano rimaste sospese tra il cuore e il cervello. La signora Arnalda raramente lo aveva visto così pensieroso come quella sera, a cena. Nemmeno quando il brigadiere Santini era stato messo sotto inchiesta. Gaetano, lo aveva sempre ribadito, non era stato solo il suo vice, ma un amico fidato che, come lui, aveva giurato fedeltà allo Stato e all’Arma. Ci aveva puntato addirittura i baffi, allora, sull’innocenza del collega. E aveva vinto.
E ora questo caso. Davide Ricotti non era un carabiniere, certo; non era nemmeno un familiare, un amico, uno che gli ispirasse simpatia o la pur minima fiducia. Non gli piaceva come vestiva e lo infastidiva la sua silenziosa insolenza; ma sebbene le sue fossero le mani di un assassino, non poteva non tenere conto della difficile anamnesi spirituale che ne aveva fatto il don. È vero, ammetteva poi in una sorta di mea culpa, anche lui, come il colonnello, il Procuratore e quegli ottusi paesani infarciti di pregiudizi, aveva supportato immediatamente l’ipotesi della colpevolezza. Ma nulla, si diceva, gli avrebbe impedito di virare in una direzione diversa. Che so: cercare un elemento nuovo, anche piccolo, e cautamente seguirlo. Perché no? Gli era capitato altre volte, del resto. E ricordava proprio di quando Santini era stato inquisito di collusione con quella banda di malavitosi dell’Est. Beh, anche allora era partito dalla semplice convinzione che un carabiniere – e un amico – non avrebbe mai fatto una cosa del genere. E così era stato.
Sì, si disse mandando giù l’ultimo sorso di vino che Arnalda gli aveva versato. Anche questa volta avrebbe fatto così.
La mattina successiva convocò Mantovano e insieme, prima ancora di scavare nella vita di Ricotti, ritennero utile risentire la testimone: la Lilly. Per il maresciallo era una posizione che andava approfondita. «E quella di don Paris, no?», rilanciò il brigadiere a bassa voce, sventolando la testimonianza del prete.
Convocata in caserma il giorno stesso dal vice brigadiere Cassetti, dalla Belli non cavarono granché. Ma il fiuto del maresciallo, almeno in parte, non aveva fallito. Nella deposizione firmata dalla donna, quando aveva descritto Davide, c’era un che di rancoroso, troppo. E infatti la cassiera del Reale, sotto un insistente susseguirsi di richieste, aveva ammesso non solo di conoscere il sospettato, ma di aver avuto con lui una relazione che il Ricotti, proprio tre settimane prima del delitto, aveva troncato senza un motivo: «Sì, è vero, maresciallo, non l’ho presa bene…». E aveva aggiunto stizzita, scrollando i capelli: «Perché non andava affatto male, sa!».
Anche don Paris fu risentito. Lui lì, quella sera, in piazza, si era trovato per caso. Era andato in Farmacia, ribadì. E pensare che mentisse non avrebbe avuto alcun senso per il maresciallo; anche se quel fremito al naso che gli scappò mentre lo diceva lo lasciò riflettere.
E poi c’era la vittima. Aveva dei nemici? Chi frequentava? Dalle indagini non risultò nulla a carico di Sergio Puleggi. Sergetto per gli amici e colleghi. Un tipo tranquillo. Casa, lavoro, chiesa, il bar. Faceva quella tratta con Roma da circa due mesi. Quel turno da un paio di settimane. Non c’era altro. La moglie era stata messa sotto sedativi e l’Arma, vista la delicatezza del momento, aveva pensato bene di affiancarle qualcuno per assisterla. Lei e il figlio, un ragazzotto di sedici anni tutto rabbia e brufoli, non riuscivano a trovare ragione di un dolore così atroce. Era davvero un povero cristo, quel Sergetto. Sembrava proprio che fosse morto per caso!
E la sorella di Ricotti? Marzia? Erano da poco passate le ventuno e trenta quando l’andarono a trovare. Dalla borsa da lavoro, buttata in un angolo, sbucavano una confezione di omogeneizzati e un pacco di pannoloni. Dalle grinze del tessuto, s’indovinava la sagoma di una padella da letto. Era appena rientrata da Roma. L’aria stanca. Emaciata. Gli occhi affossati. La ricrescita dei capelli palesava un incanutimento precoce. Dei suoi ventinove anni rimaneva solo la data sul documento. Anche lei di poche parole, si limitò ad escludere Davide come l’autore di quell’efferato delitto. E come già il prete, indicando la testolina ricciuta di Andrea davanti alla televisione, non fece altro che pronunciare parole di affetto e riconoscenza per il fratello.
«Sì!», confermò in seguito, sapeva che il maresciallo aveva parlato con don Paris. E ne sembrò imbarazzata. Persino confusa. Mentre accennava a Michele, poi, il marito, allungò una mano a prendere una foto sulla credenza del soggiorno, tra un Pierrot in silver e una bottiglia di Fernet. Michele aveva la faccia buona. Sulla foto teneva stretto il figlio. Ridevano. Sullo sfondo, gli scivoli di un parco acquatico.
«Ecco», posò il dito sull’immagine, «questo è Michele. La foto è di due estati fa. A Riccione. Che vuole che le dica. Eravamo sposati da nove anni. Ogni giorno passato a sognare una vita diversa», accennò un sorriso indicando il bambino. «Oltre a lui non avevamo altro». Emilio serrò le labbra; e Mantovano, rovistando tra le tasche dell’uniforme, si rivolse ad Andrea e tirò fuori un distintivo della Compagnia Motorizzata che conservava per il nipote. Il piccolo accennò appena un sorriso. Lo prese, ringraziò, e tornò con lo sguardo sull’invincibile robot.
«Quella donna è… troppo triste», fu l’osservazione del maresciallo rientrando in caserma. Il brigadiere, distraendosi dalla guida, lo vide grattarsi la testa. Sotto quel prurito, e Mantovano lo sapeva bene, stava succedendo qualcosa.
«Signore», esordì Emilio rivolto al colonnello Satta, «io credo che quel Ricotti nasconda qualcosa, ma che sia la persona che cerchiamo, penso di poterlo escludere. Gli indizi sono deboli. E poi…». Emilio accennò al superiore la storia familiare dell’inquisito. Una storia che non poteva appartenere a un omicida. «Me lo sento dentro», confidò. L’ufficiale annuiva. Il dottor Vitale, però, fu meno convinto di quella tesi. Trincerandosi dietro la pragmatica del proprio ruolo, ritenne di assecondarla solo in parte, disponendo che il Ricotti rimanesse in stato di fermo e che l’indagine intraprendesse altre piste. Al lavoro, dunque!
Soddisfatto, il maresciallo si accanì alla ricerca del piccolo particolare che gli avrebbe consentito di lanciarlo come un falco sulla pista agognata. Per la verità, adesso era un po’ come un cane da caccia: avanti, indietro. Annusando. Le parole di don Paris e l’ostinato silenzio del Ricotti avevano solo stuzzicato il suo fiuto. Poi, pensò, c’era Marzia, così triste e silenziosa anche lei, così tormentata; sembrava che l’afflizione fosse congenita, in quella famiglia. Neppure il piccolo Andrea pareva esserne immune.
La sera, davanti alla televisione, proprio come un bracco scorbutico, Ripoti indugiava rannicchiato sulla poltrona a tormentare il telecomando, fumando; con la signora Arnalda che non faceva altro che raccomandargli la calma, rammentargli la pressione alta e invitarlo a non fumare troppo, ché secondo lei la cosa migliore da fare, qualche volta, è: «Guardare le cose staccandosene un po’. Magari ripartendo».
Già, ripartendo, ripeteva a Mantovano. Ma da dove? Al Gioco dell’Oca, ricordava tracciando su un foglio una specie di percorso, sarebbe tornato al punto di partenza. Al momento in cui aveva saputo che Davide si era sempre preso cura della famiglia e che poi aveva avuto una storia con la Belli, interrotta improvvisamente tre settimane prima che il Puleggi venisse ammazzato.
Bloccò la penna. «Uhmm… Tre settimane», ripeté tamburellando la biro sul foglio. «E cos’è mai successo tre settimana prima?», chiese al brigadiere, che con gli occhi sedotti dalla spirale di fumo che saliva dalla sigaretta appena accesa da Ripoti, rimase muto.
«A proposito, Mantova’, ma da quant’è che la vittima faceva quel turno?». E il vice, questa volta, rispose solerte, quasi euforico: «Due settimane!».
«Uh!», borbottò il maresciallo. «Allora, ricapitoliamo. Ricotti inspiegabilmente molla la Lilly tre settimane prima del delitto. E Puleggi fa quel turno da due settimane». Le dita tozze e gialle di nicotina scavavano sulla pelata. «C’è una settimana che avanza. Quella da quando Puleggi inizia il turno e Davide scarica la Belli». Puntò il gomito sul tavolo e appoggiò la guancia sulla mano aperta. «Cos’è mai successo in quella settimana? Certamente qualcosa che ha scosso Davide al punto da compromettere una relazione che, a detta della cassiera, non andava poi così male».
«Ma la sorella, Marzia, che c’entra con tutto questo?».
«Se non la sorella, c’entra il nipote. O tutti e due. Ricordi cosa ha detto il prete? Davide ha fatto e farebbe di tutto per loro. Per proteggerli».
Quello stesso pomeriggio, dopo il caffè preparato dal carabiniere scelto Saffi, e con la quindicesima sigaretta già pronta tra le labbra, il maresciallo capo sentì finalmente quel “Plup!” che aspettava. Sì, proprio quello: il piccolo elemento che cercava. Sbucò così nella testa di Ripoti, come un virgulto cocciuto tra le crepe di quel muro che, per capirci, era la settimana mancante; e l’ostinato bocciolo aveva anche un nome: Carmine Serafini.
Carmine Serafini era un trentaduenne che si credeva pieno di talento. Era quello che le signore del paese avrebbero chiamato “un pezzo di giovanottone”. Quando arrivò in caserma, accessoriato con un paio di occhiali specchiati, venne subito fatto accomodare nell’ufficio di Ripoti, che non appena lo vide gli intimò di spegnere la sigaretta.
Inguainato in un paio di jeans a vita bassa e in un giubbotto di pelle avvitato sui fianchi, Serafini aveva con la brillantina un rapporto davvero speciale: pareva gli avesse preso in ostaggio la testa. A parte questo, l’elemento chiave che determinò l’entrata in scena del bellimbusto era il suo lavoro. Era lui, infatti, il turnista della settimana mancante, l’autista che aveva preceduto Puleggi. E a Ripoti bastò fargli una domanda: «Lei conosce Davide Ricotti?».
Il giovanottone s’irrigidì. Fece per prendere una sigaretta, ma la rinfilò nel pacchetto, accennò un sorriso, e alla fine rispose: «Conosco la sorella…». Era la risposta che il maresciallo capo prevedeva. Aspettava.
Serafini fu trattenuto quel tanto che bastò per raccontare che con Marzia Ricotti aveva avuto una “piacevole storia”, ma che la donna, dopo soli sei mesi, aveva iniziato ad essere “troppo incalzante”. A fare progetti. Lui, lei, il marmocchio: «Marescia’, si era messa in testa di farmi mettere su famiglia! A me?». Per farla breve, Serafini non ce la faceva proprio più: tutte le sere, quando saliva sulla corriera, lei era lì a pianificare, stabilire, chiedere... Il bel Carmine, insomma, senza troppe lusinghe, l’aveva scaricata. «Fu allora», concluse, «che chiesi a Marchetti, il superiore, di fare un cambio turno con quel poveraccio di Sergetto…». Si bloccò, impressionato dall’espressione impallidita di Ripoti. «Marescia’, mica penserà che io…?».
Ripoti, per due minuti, rimase immobile ad ascoltarlo; poi riacquistò lentamente un po’ di colorito e lasciò che tutto il resto che quel tizio aveva da dire venisse verbalizzato da Cassetti. Prese il cappello, si stirò la giubba con le mani e indugiò agganciando la Beretta alla tasca. Gli serviva? Sbirciò infine Mantovano e, lanciandogli le chiavi dell’auto, lo invitò a seguirlo.
Nonostante la velocità sostenuta della Punto di servizio, il paese, come dice l’adagio, è piccolo, e le notizie, tra un mormorio e l’altro, una scorciatoia la trovano sempre. Tant’è che quando Riccardino, dall’orto, vide Mantovano parcheggiare l’auto, mollò la vanghetta e, come un leprotto spaurito, si fiondò con lunghi balzi ad avvisare il parroco. Arrivò di fronte al prete sudato senza decidersi a parlare. I suoi occhi guizzavano tra i muri e il soffitto. Sembrava non sapere cosa farsene delle mani, tanto le agitava; al contrario di don Paris che, quando vide i due militi sulla porta della sagrestia, le teneva ben strette una contro l’altra, esangui. Lei, Marzia, era lì, nella penombra del lucernario. Piantata a fianco del sacerdote, con le labbra arricciate; il vestitino di maglia color pulce attaccato come un sudario al corpo ossuto. Il fruscìo del rosario nella tasca del parroco fu il solo rumore che si udì quando il prete si mosse verso il maresciallo e, con uno sguardo che si andava appesantendo, gli si avvicinò, allargando il solito sospiro bonario; poi si volse fissando la donna, e solo quando sbatté lentamente le palpebre, Marzia iniziò a parlare.
Mentre l’ascoltava, la faccia di Ripoti rivelò un’ombra di scoraggiamento. E dire che ne aveva avuti, di fronte: tipi scaltri, disperati, gente che gli resisteva per ore e ore a botta e risposta. Ma mai, ricordava, aveva sentito una confessione più orgogliosa. Immobile sotto un fascio di luce popolato di polvere, Marzia raccontò con quanta rabbia aveva ficcato il rasoio del padre sotto l’orecchio sinistro dello sventurato Puleggi; e bisognava vederle, le ombre scure, furiose, che le comparvero intorno agli occhi, quando descrisse la forza con cui fece leva sotto il mento dell’uomo e lo trascinò fin quasi all’altro orecchio. Poi, nel suo sguardo, l’odio lasciò il posto all’afflizione.
«Solo quando vidi la testa ricadere sul volante e la faccia piegarsi su un lato», disse, «mi accorsi che non era quel porco di Carmine…». La voce si era ora ridotta ad un soffio, gli occhi inespressivi. «C’era sangue dappertutto, maresciallo. E poi quel clacson…».
Cadde un breve, sbalordito silenzio. Si sentivano solo i latrati di un cane e i colpi della vanghetta di Riccardino. A rompere quella tensione ci pensò il maresciallo che, dopo aver suggerito con gli occhi al brigadiere di occuparsi di Marzia, usò appena un filo di voce per dare l’epilogo a tutta la storia. «E purtroppo, Padre, sia lei che Davide siete arrivati troppo tardi…».
«Già…». E dal faccione di don Paris trasparì solo amarezza. Accompagnandolo alla Punto, il parroco seguitò a raccontare al maresciallo di quando, la sera prima del delitto, Davide aveva trascinato Marzia lì, in chiesa; né lui né il fratello, però, erano riusciti a dissuaderla dall’insano appetito di vendetta che da una settimana, ormai, le stava montando dentro. «Il delitto», concluse, «me lo ha confessato quella notte stessa».
Fu infine il maresciallo capo, prima di salire in auto, a chiedere cosa sarebbe stato del piccolo Andrea; adesso che anche per lo zio sarebbe scattata un’accusa di favoreggiamento: «Non è roba da poco...». Ma la risposta del prete fu laconica, disarmante. «E chi lo sa?... Sui bambini di quella famiglia, che Iddio mi perdoni, sembra gravare una maledizione!».
Ebbene. Davide Ricotti non era un carabiniere, un familiare e neppure un amico; quando si trattò di stendere il rapporto e mettere la parola fine all’indagine, però, il maresciallo capo Emilio Ripoti non lesinò una sola parola per accentuare le attenuanti a difesa del ragazzo.
E il brigadiere Mantovano controfirmò tutto.
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