La controversia fra “tradurre” e “tradire” è ancora aperta: prendere un testo scritto e concepito in una lingua e tradurlo in un’altra, magari strutturalmente lontanissima, è impresa ardua e molto delicata. Invece di tradurre, si rischia di tradire il testo originale, anche se poi il lettore può non accorgersene. Ma cosa accade esattamente durante questo passaggio?
«Vedi, se si entra troppo in un libro, tradurlo diventa difficile. [...] Anche quando si è fatto questo lavoro per più di dieci anni, vengono momenti di stanchezza. E tradurre procura un tipo di stanchezza molto particolare.»
A parlare è la madre di Kazami nel romanzo “N.P.” (1991) di Banana Yoshimoto. Sia la madre che la figlia sono traduttrici di professione, anche se Kazami non ha il talento della genitrice. «Uno segue passo passo il testo di un altro proprio come se l’avesse pensato lui, no? - continua la madre - Per ore e ore ogni giorno, come se quel testo fosse il suo. Il proprio pensiero comincia a coincidere con i circuiti mentali dell’altro. È una cosa molto strana. Ci si entra dentro fino all’identificazione totale». Ma cosa succede se il testo da tradurre è... “pericoloso”?
Kazami si imbatte per caso nello pseudobiblion presente nel romanzo della Yoshimoto: “N.P.”, che è anche il titolo del romanzo stesso, in un circolo vizioso spesso usato dagli autori di pseudobiblia. La sigla è l’abbreviazione di “North Point”: «C’è una vecchia canzone che si chiama così [...] Una canzone molto triste». “N.P.” è un’antologia di cento racconti firmati da Sarao Takase, ma in realtà i racconti realmente presenti sono solo 97: durante la stesura del 98°, l’autore si è suicidato. Takase però era emigrato negli Stati Uniti, e ha scritto tutti i suoi racconti in lingua inglese: altri, in patria, hanno curato la traduzione in giapponese, ma quando hanno cercato di recuperare e tradurre il 98° racconto, è successo qualcosa di molto particolare. «Le tre persone che hanno messo mano alla traduzione giapponese sono tutte morte. Perché?» La risposta di Kazami è consequenziale: «Sarà che la combinazione con il giapponese è fatale, chissà?»
Ma cos’ha scritto di così terribile l’autore di quel racconto? Parla di uno scrittore che ama le donne molto, ma molto più giovani di lui, finché un giorno non scopre che la sua fidanzata altri non è che la figlia che aveva abbandonato tempo prima. Forse Takase ha riversato nel suo racconto tutti i sentimenti provati nell’incesto consumato, «È una specie di forza maligna, fatale, che viene fuori da quel libro», fatto sta che da allora chiunque provi a tradurre in giapponese quel testo viene aggredito da sensazioni intense. «Secondo me le persone attratte da questo libro, quelle che vorrebbero tradurlo, nascondono tutte allo stesso modo un’aspirazione al suicidio. E per loro questo libro è un richiamo».
È il libro a richiamare le persone che nascondono aspirazioni al suicidio? A qualsiasi interrogativo Banana Yoshimoto non è interessata a rispondere, in quanto “N.P.” è un romanzo particolare, sottile, e tutto incentrato sul rapporto di Kazami con i figli dello scrittore Takase, i quali hanno continuato nelle tendenze incestuose del padre: non c’è spazio per giochi letterari, e il mistero del 98° racconto rimarrà sempre tale.
Il secondo libro che prendiamo in considerazione è solo apparentemente legato alla percezione mentale, o meglio all’alterazione mentale, e si intitola “Che fine ha fatto Mr. Y.”, l’ultimo e più misterioso libro di Thomas E. Lumas che si incontra nel romanzo omonimo (torna il circolo vizioso!) del 2006 di Scarlett Thomas.
La protagonista del romanzo, Ariel Manto (anagramma di I am not real, io non sono reale), è una fervente appassionata di questo fantomatico autore ottocentesco, ignorato dai più e i cui libri sono molto rari. Sappiamo che ha scritto anche “La mela nel giardino” e “La stanza azzurra”, ma a lei interessa principalmente “Che fine ha fatto Mr. Y.”, ancora più raro. «Nessuno ce l’ha. Ne esiste una copia conservata nel caveau di una banca in Germania, ma non è sul catalogo di nessuna biblioteca. Ritengo che forse una volta Saul Burlem ne abbia vista una, ma non ne sono sicura.» Ma la rarità dell’opera non è dovuta ad un’edizione limitata: «è considerata un’opera maledetta, e anche se naturalmente io non credo in queste cose, certa gente pensa che se uno la legge muore.»
Con queste premesse inizia un lungo e articolato romanzone in cui l’autrice inserisce molti più ingredienti di quanto la ricetta non ne abbia bisogno: il risultato è un’indigestione che lascia tramortito il lettore.
Prima che la Thomas divaghi per cieli e per mari, sappiamo che l’opera maledetta di Lumas - «un piccolo libro con la rilegatura rigida in tela color crema, con caratteri marroni sulla copertina e sul dorso» - è stata pubblicata nel 1893 con il seguente avvertimento: «La trattazione che segue potrà sembrare al lettore una semplice fantasia, o un sogno messo per iscritto al risveglio, in quei momenti febbrili quando si è ancora suggestionati dai giochi di prestigio prodotti dalla mente allorché gli occhi sono chiusi.» Il giorno successivo alla pubblicazione, Lumas morì, «e come lui morirono anche tutti quelli che avevano avuto a che fare con il libro (l’editore, il curatore, il compositore). Da lì la cosiddetta “maledizione”.»
Un certo Burlem tenne una conferenza in cui «considerava l’idea della maledizione una specie di virus, e discusse la produzione letteraria di Lumas come se fosse un organismo attaccato da questo virus e destinato, forse, a scomparire.» Non ci si lasci ingannare però da questi elementi: ben presto di Lumas, del suo libro e del “contagio” che questo porta si perderanno le tracce, visto che l’autrice è interessata a ben altri elementi. Malgrado infatti faccia credere al lettore di star leggendo un thriller bibliofilo, infarcendo il tutto con paroloni altisonanti («Poiché è soltanto nel logos della metaphora che possiamo trovare la protasis del passato - scrive Lumas, - quella straordinaria illusione che chiamiamo memoria.») in realtà abbastanza presto si scopre che questo fantomatico libro maledetto contiene alcune formule per sostanze stupefacenti che fanno accedere ad un altro tipo di realtà... addirittura passando di corpo in corpo.
Come si diceva, l’autrice affronta una così grande varietà di argomenti che la lettura del romanzo è veramente difficoltosa: se si fosse limitata ad un singolo tema, preferibilmente quello bibliofilo, sarebbe risultato un ottimo romanzo. Lumas e la sua opera maledetta sono molto affascinanti, ma si rimane con l’amaro in bocca quando scompaiono nello stesso nulla che li ha generati.
Che quello bibliofilo era l’elemento su cui puntare lo sanno bene gli editori, visto che sulla copertina del libro della Thomas - con una dubbia operazione di ciò che forse potrebbe chiamarsi “marketing” - campeggia la frase «Se sapeste che questo libro è maledetto lo leggereste lo stesso?»
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