Uscii da quella serra con la pesante sensazione che la mia fosse una corsa contro il tempo. Che quel povero vecchio, se anche fosse stato in grado di sopravvivere alla verità, forse non sarebbe arrivato in tempo a sentirsela raccontare. Ma quando prendo un impegno, ci tengo a render conto direttamente a chi mi ha ingaggiato. Senza intermediari. Per quanto affascinanti essi siano. Quell’uomo, ora morente e vinto dal suo male, aveva fondato una dinastia e un impero. A conti fatti era un sopravvissuto di un’antica stirpe, forse l’ultimo esemplare del suo genere.
Mi pareva quasi di sentirlo mormorare, con quel refolo di voce che ancora gli rimaneva, le parole che sancivano insieme il suo successo e la sua rovina: — Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli o pecore, continueremo a crederci il sale della terra.
Già, il sale della terra, ma il cuore di Roma non è mai stato il marmo del Senato, quanto piuttosto la sabbia del Colosseo. E infatti le figlie, tutte e due, erano fatte di un’altra pasta. La maggiore era di quelle che pensavano di poter trattare tutti gli uomini come bestie ammaestrate, e il bello è che sembrava ritenere un’offesa personale il fatto che alcuni non obbedissero all’istante solo a uno sventolare delle sue lunghe ciglia da falena. L’altra invece, ancora nella fase della sperimentazione, oscillava continuamente tra il ruolo della femme fatale e quello della ragazzina ribelle.
La prima volta che la vidi era strafatta di qualcosa fino alla cima dei capelli, dondolava pericolosamente in precario equilibrio su un paio di tacchi alti come un comodino e finì col cadermi tra le braccia mentre passavo, con un pessimo effetto sulla badante ucraina che, con i suoi cento chili di stazza, sembrava essere in grado al tempo stesso di sollevare da terra sia il povero infermo che il sottoscritto, se solo avesse ritenuto che fosse stato il caso di sbattermi fuori casa. La scena che si svolse fuori dalla serra sembrava essere stata scritta apposta per una commedia da avanspettacolo di quart’ordine. Il grande salone era tappezzato da arazzi e quadri che ritraevano varie generazioni di antenati del generale Selva, tutti soggetti con i quali, in linea di massima, pareva decisamente consigliabile andare più che d’accordo. Chissà se anche loro avevano avuto delle figlie decisamente sbilanciate dalla parte pericolosa dei vent’anni? Uno di tali esemplari di femmina procace mi si stava facendo incontro giusto in quel momento, veleggiando dallo scalone imponente di pietra con gli occhi curiosamente assenti e fissi di chi dietro a una bella carrozzeria non ha molti ingranaggi da mettere in moto, la mattina. I suoi denti erano piccoli e bianchi come quelli di una faina, e infatti sembrava proprio un animale da preda mentre mi prendeva le misure.
— Ma come siete alto — mi disse.
Risposi che non lo facevo apposta, e lei si scompisciò dalle risate, gettando indietro la gola e continuando a scendere con quel suo fare traballante reso ancora più incerto dai tacchi altissimi. Sentivo sbuffare il donnone dietro di me che probabilmente, se avesse potuto fare a modo suo, avrebbe affogato la piccola faina nella piscina olimpionica che là fuori riluceva sotto a un sole abbagliante, sicuramente anche quello acquistato su commissione. Non mi era sembrata una gran battuta, ma la fanciulla invece parve trovarla irresistibile. Visto che però non mi sdraiavo a terra con le zampe in aria, come lei si sarebbe aspettata, la bella virago in erba cominciò a squadrami con aria sospettosa. Evidentemente, però, lo sforzo di fare due cose insieme era troppo per quella testolina, tra l’altro decisamente appannata dai vapori tossici di chissà quale roba inalata, siringata o sparata dentro ai suoi vortici cerebrali, perché proprio sull’ultimo gradino caracollò, solcando l'aria verso di me con la grazia di un brigantino che si schianta contro la scogliera. A quel punto la scelta era tra lasciare che si fratturasse il naso contro lo scalone di marmo o afferrarla tra le braccia, così l’afferrai per le ascelle e lei si lasciò andare mollemente, cingendomi il collo con le braccia e stampandomi al contempo un potente succhiotto sul collo. Non dissi nulla, mentre, alle mie spalle, sentivo lo sguardo della donna ucraina perforarmi la nuca. Quando sei in dubbio, segui sempre il mio naso, mi dissi. Così, con estrema grazia, depositai la donzella in salvo sull’ultimo gradino e, con il colletto della camicia striato di rossetto, mi girai appena in tempo per fronteggiare l’altra pianta carnivora della casa. Abbagliante come una visione, la figlia maggiore del generale mi stava squadrando.
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