Se La virtù del cerchio (2008), il romanzo d'esordio di Dario Falleti, era in sostanza un mystery archeologico con tanto di vittima iniziale (un vescovo in pensione studioso di arte etrusca, e che alla fine risulta aver avuto tutt'altro ruolo), Le regole dell'anagramma è una singolare spy story, dove l'unica sicurezza è il grado “alcolico” del disincanto e dell'ironia, per non parlare dei diversi momenti d'autentica comicità.
Come nel romanzo d'esordio, protagonista è sempre il commissario Negroni, qui con l'incarico di improvvisato agente segreto (con contratto da precario, annota con ironia Falleti), mandato a Londra sotto le mentite spoglie del dottor Guido Corsini, presunto vicepresidente di una banca d'affari. L'operazione è quanto mai seria e rischiosa: si tratta infatti di controllare - e se possibile neutralizzare - l'attività di una finta società finanziaria, in realtà multinazionale del crimine. E come capita in una spy story che si rispetti, la missione di Negroni/Corsini è non solo oggettivamente importante, ma si colloca come ultima, disperata mossa dell'intelligence italiana per salvare la sicurezza del Paese e per non perdere la faccia con la Nato.
Nella trasferta a Londra, Negroni/Corsini vive la condizione di turista incuriosito dagli usi e costumi inglesi, bilanciando con un'operazione nostalgia (dell'Italia) come gourmet e buongustaio; e con esercitazioni ludico-sessuali con Jennifer, la segretaria affidatagli dai servizi segreti, alternando con certe serate dove la malinconia viene vinta (come una certa condizione esistenziale...) con un certo livello alcolico.
Nella prefazione, Luca Crovi annota giustamente che Falleti conosce e si esercita volentieri con gli insegnamenti di un Greene, di un Follett o di un Forsyth. Ma, aggiungo, lo fa con inventiva e senso dell'humour (quello italico e quello inglese, sapientemente miscelati, più uno spruzzatina di bizzarro) ad alto livello, pari a quello degli autori citati. A cominciare da Graham Greene, di cui è l'epigrafe d'apertura al romanzo: “La libertà di commercio è meno interessante di una guerra nell'Ashanti, sebbene i piccioni di Londra non facciano distinzione tra le due cose”. Frase quanto mai emblematica, lasciata lì come suggestione ulteriore a cercare di interpretare i vari significati di questa spy story dove tutto è provvisorio, dove i messaggi (anche quelle di servizio) da chiari divengono criptici e i dialoghi da leggeri e persino futili imprevedibilmente dotati di una pesantezza multi senso, … e si potrebbe continuare.
Sul personaggio Negroni, altri hanno già detto prima e meglio di me. Mi limito quindi ad elencarne alcune caratteristiche: l'insolito livello culturale (paragonato a quello della maggior parte dei commissari di carta che conosciamo) espresso sempre con inconfondibile e continua ironia; un peculiare disincanto che lo porta ad autentica sofferenza per le ingiustizie della violenza e dell'inganno a cui sempre è sottoposta la vittima; un buon intuito che gli permette d'uscire indenne da indagini con enigma alla Ellery Quen; … Non importa continuare: si capisce che siamo nel solco di un Nero Wolfe, di un Ingravallo di C. E. Gadda e di un Montalbano.
Una spy story in cui l'unica certezza è il piacere di rileggerla.
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