Anton, medico, lavora in un campo profughi in Africa. Suo figlio Elias, un adolescente timido vittima del bullismo dei prepotenti compagni di scuola e tormentato per la separazione dei genitori - si lega in un'intensa ma rischiosa amicizia con Christian, un suo coetaneo da poco arrivato da Londra, arrabbiato con la vita e con il padre dopo la morte della madre…
In un mondo migliore della signora del cinema danese Susanne Bier, come mettere in contatto, sequenza dopo sequenza, un ritratto parallelo tra due mondi quanto mai diversi così come lo possono essere una città del nord-Europa e uno sperduto campo profughi africano.
Per chi non si accontenta anche un dilemma morale di quelli tutt’altro che semplici da districare, tipo “Porgere o meno l’altra guancia?” che prende vita in un mondo, quello scolastico che quanto a violenza sottesa ed esplicita non è secondo a nessuno (leggi “bullismo”), per finire ben presto in un altro mondo, stavolta degli adulti, chiamati a dire la loro sul medesimo conflitto magari da una posizione che si pensa privilegiata e invece no, col rischio che la scelta di sottrarsi all’”occhio per occhio, dente per dente” sostituendola con una risposta non violenta finisca col produrre una perdita di prestigio di fronte agli occhi dei figli.
Va da sé che di fronte a risposte non date, oppure data ma non comprese a fondo da chi non vuole saperne, l’adolescente cerchi risposte tra chi è più vicino a lui e magari più pronto a passare alle vie di fatto, il che non farà altro che aumentare il tasso di drammaticità di una storia già drammatica di suo.
Insomma, la carne al fuoco nonostante la quantità è lungi dallo bruciarsi, vedi i ritratti più che convincenti dei due ragazzi (Markus Rygaard nei panni del vessato Elias e William Jøhnk Juels in quelli “cattivi” di Christian…) schierati contro tutto e tutti e dei rispettivi genitori che più vorrebbero essere d’esempio e meno ci riescono (anche perché hanno i loro problemi tra lutti e separazioni a un passo dal diventare tali) e la parte africana del film per una volta molto realistica e per niente accomodante.
Occhio alla regia che forse memore del Dogma (95) del quale la Bier ha fatto parte, mescola scene dallo stile per così dire tradizionale ad altre zeppe di hard-cut, ellissi, brucianti zoom in avanti.
Certo, come spesso accade è alla fine che si fanno i conti, conti che rischiano a dispetto delle promesse di mandare in rosso il film, causa un finale che una volta raggiunto il climax sembra cominciare a pensare a come chiudere nella maniera migliore possibile che in questo caso equivale a dire nel modo più indolore possibile.
Oscar come miglior Film straniero
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