Abbiamo parlato di crimine e di come questo sia spesso sintomo di un disagio, di un gesto convulso, irrazionale, l’ingrediente di un’emarginazione annunciata. Ma c’è un crimine che nasce da un humus diverso, quello dei focolari domestici, delle persone per bene, istruite, lungimiranti; di quelle che si alzano alla mattina per raggiungere il posto di lavoro, sedersi dietro ad una scrivania o ascoltare una lezione universitaria… Quasi per sbaglio quelle stesse persone si ritrovano ammorbate dal virus dell’illegalità, come se il sentore della povertà, dell’inadeguatezza, dell’emarginazione, sia potuto entrare dalla porta di casa come una folata di vento inaspettata. Allora il crimine sembra cambiare connotazione, quasi si fatica a dargli quella prerogativa stereotipata, degradata, infame. Non possediamo più metri di paragone per soppesarlo, ecco perchè ci ritroviamo spettatori destabilizzati, sconnessi, increduli di fronte a quei crimini. L’ostracismo mediatico nei confronti del colpevole, diventa un atto quasi iniquo, indecifrabile, proprio perché gli si attribuisce una valenza diversa. Forse questo è il caso della Knox, ritenuta colpevole dalla giustizia mentre Amanda, dal viso dolce e pulito, continua ad essere la ragazza gentile e ben educata di sempre. Allora Amanda diventa un Damocle che accortosi della spada che le pende sul collo, allontana la Knox, per non assumersi le proprie responsabilità. Quel cognome, quella identità divenuta contro la sua volontà mediatica, la identifica in “quella” Amanda, rendendo quella paternità incalzante, e forse facendole desiderare di annullarla per tornare ad essere una Amanda qualunque. Abbiamo parlato a questo proposito con l’Onorevole Rocco Girlanda che nel volume Io vengo con te- colloqui in carcere con Amanda Knox edito da Piemme, ha raccontato i suoi incontri con la detenuta.
Come definirebbe il Suo rapporto con la signorina Amanda, una delle tante detenute del carcere di Perugia?
I nostri incontri sono davvero un dialogo tra amici, un dialogo spontaneo, e la cultura e la sensibilità di Amanda fanno sì che si possano avere conversazioni molto stimolanti. Il mio rapporto con Amanda è molto diverso da quello che si può pensare perché ho davanti la persona Amanda, un’amica, e non il personaggio Amanda Knox. Per questo preferiamo parlare di noi, della nostra amicizia e dei nostri progetti, ad esempio di quando andremo a campeggiare insieme oppure di quando la porterò a Gubbio a mangiare il tartufo, piuttosto che di quello che i media dicono di lei o di me.
Si è temuto un problema diplomatico dopo l’incarcerazione della signorina Knox, siamo stati accusati di antiamericanismo, come risponde a questa provocazione?
Ho ritenuto necessario il primo incontro con Amanda nel dicembre del 2009 nella mia qualità di presidente della Fondazione Italia Usa, proprio per quelle che sono state e sono le ricadute che questo drammatico caso di cronaca sta avendo nei rapporti tra Italia e Stati Uniti. Ho sempre considerato fortemente fuori luogo l’inserimento dell’antiamericanismo in questa vicenda, come invece richiamato da diversi esponenti americani che ricoprono anche ruoli istituzionali. E su questo mi conforta la posizione di Amanda, espressa chiaramente in una lettera che mi ha scritto: “Non è contro la città di Perugia che si deve lottare, ma contro un errore giudiziario. Spero che qualcosa di positivo cominci a delinearsi, per recuperare quell’amicizia che dovrebbe idealmente trovarsi ovunque”.
Come Presidente della Fondazione Italia Usa, quanto è importante mantenere i buoni rapporti con l’America?
La Fondazione Italia Usa è nata per testimoniare l’amicizia tra gli italiani e il popolo americano. Da tempo Italia e Stati Uniti si scambiano cultura, beni materiali, influenze e tradizioni, tanto da poter affermare che, senza l’apporto dell’uno, l’altro sarebbe diverso da com’è, e viceversa. Descrivere le relazioni tra due Paesi è affascinante ma difficile: ogni nazione muta, ogni popolo cresce ed evolve, e i rapporti reciproci sono sempre lo specchio dello spirito del tempo. Oggi, per il fatto stesso che Stati Uniti e Italia sono legate da ottime relazioni, è più che mai utile un’istituzione che veicoli, migliori e approfondisca in Italia la cultura americana nelle sue mille sfaccettature. Per questo è nata, alla presenza ufficiale di un alto rappresentante diplomatico dell’Ambasciata degli Stati Uniti che ha partecipato formalmente all’atto costitutivo notarile, una fondazione che intende svolgere un ruolo pubblico con carattere apartitico al di qua e al di là dell’Atlantico. Con il sostegno dei tanti italiani interessati e dei molti connazionali che vivono negli Usa, la Fondazione si propone di mettere in atto le iniziative e le collaborazioni necessarie per rendere più solide la conoscenza, la comprensione e l’amicizia degli Stati Uniti in Italia.
Amanda è una sua amica costretta a una pena detentiva, cosa vorrebbe fare ancora per lei, ricordiamo che attraverso la Sua associazione l’apporto umano e psicologico nei suoi confronti è stato notevole…
Recentemente in un incontro molto toccante ed emozionale, come d’altra parte accade ogni volta che ci vediamo, Amanda mi ha detto che quando lei è entrata in carcere, a 20 anni, stava cominciando a tessere i fili della sua vita, ed è stato come se qualcuno avesse strappato repentinamente tutti questi fili spezzando quindi i suoi progetti. Credo che lei trovi un parziale sollievo al peso della detenzione non tanto nelle molteplici attività fisiche che svolge in carcere, come la ginnastica, il canto, lo studio o la lettura, ma dalla speranza di poter riannodare tutti questi fili spezzati e ricominciare. E’ ovvio che il regalo più bello per lei sarà la libertà.
Quanto può penalizzare o favorire l’impatto mediatico riguardo a un processo?
Nel mio libro è contenuta una lunga lettera indirizzata ad Amanda dal giornalista Giampiero Gramaglia, già direttore dell’Ansa, ora editorialista di diversi quotidiani, che è stato per lungo tempo corrispondente da Washington DC, da dove ha raccontato l’America agli italiani. Nel testo Gramaglia riporta molti casi esemplari di processi, sia italiani che americani, che certamente hanno subito l’influenza dei media. Emblematico quello di Scott Peterson, condannato a morte a furor di popolo in California solo sulla base di indizi e senza alcuna prova, un caso che Gramaglia riporta approfonditamente sotto il titolo “E’ antipatico: condannato a morte tra gli applausi”.
Considerato che ha trascorso un discreto tempo nelle prigioni, come vede la situazione delle carceri italiane?
La situazione è diversa da struttura a struttura, e case circondariali come quella di Perugia sono delle carceri moderne ed esemplari, seppur con i problemi comuni a tutto il sistema penitenziario italiano. Anzitutto, negli anni, sono cambiati i detenuti.
Circa 25 mila oggi sono stranieri, su un totale di circa 66-67 mila, che crescono al ritmo di circa 800 al mese. In alcune regioni come il Veneto gli stranieri detenuti sono circa l’80 per cento del totale. I detenuti negli anni Sessanta erano la metà degli attuali, in prevalenza criminali a tempo pieno, quelli che una volta in Italia si chiamavano “i banditi”. Oggi le carceri sono colme invece di soggetti che invece provengono dall’emarginazione sociale, psichicamente deboli e in buona parte tossicodipendenti, con grandi difficoltà a sopravvivere al regime carcerario. Ed infatti dagli anni Sessanta i suicidi in carcere in Italia sono cresciuti di più del 300 per cento. Almeno ogni settimana leggiamo di una o due persone che si tolgono la vita in cella, con i metodi più dolorosamente fantasiosi.
Dal Suo testo si evince che la maggior parte dei detenuti non possiede cultura sufficiente, crede che possa incidere con gli atti criminosi di cui sono accusati?
Come riferisco anche ad Amanda nel libro, non dobbiamo pensare che tutti abbiano la sua sensibilità, la sua cultura, la sua forza di volontà. Non tutti, fuori dal carcere, possono fare lo scrittore o discutere delle correnti letterarie storiche o contemporanee come facciamo io e Amanda. Non tutti possono pensare ad un futuro diverso, non tutti posso impegnarsi a studiare e migliorare, perché non ne hanno gli strumenti. Abbiamo visitato la scuola del carcere, dove persone adulte stanno cercando di imparare a scrivere o disegnare. E’ proprio a questo punto che entra in gioco la funzione di recupero sociale del carcere. Se una donna è semianalfabeta, nella sua vita ha sempre rubato, non sa fare altro, appena fuori come pensiamo che riuscirà a sopravvivere se non ricominciando a rubare? Per questo il carcere deve, o meglio dovrebbe, fornire gli strumenti per migliorare e per avere un’altra chance dalla vita.
Cosa si dovrebbe fare per evitare quella emarginazione sociale che nella maggior parte dei casi porta un uomo a diventare un delinquente?
A questa domanda penso che potrebbe rispondere un sociologo. E non credo in tutta onestà che neppure un sociologo abbia una ricetta taumaturgica in questo senso. In tutte le società, sia nell’Occidente che nei Paesi meno avanzati, la lotta per combattere la marginalità è una sfida quotidiana che è ancora molto lontana dall’essere vinta.
Può una persona colpevole di omicidio, a Suo avviso, espiare ad un reato grave dimostrando buona condotta?
Come è noto, in Italia infatti c’è la cosiddetta legge Gozzini, una legge del 1986 che prende il nome da Mario Gozzini, politico e scrittore, che in Parlamento si impegnò per affermare la funzione rieducativa della pena e per prevedere misure alternative alla detenzione. Tra queste i permessi premio, l’affidamento al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà. E, per rispondere alla sua domanda, la liberazione anticipata: è forse il punto più interessante, la norma prevede infatti che il condannato, in circostanze di buona condotta, possa scontare la pena seguendo un calendario di nove mesi invece che di dodici, ovvero vedendosi scontati quarantacinque giorni di pena ogni sei mesi di carcerazione. In questo modo, come leggiamo spesso, alcuni detenuti lasciano il carcere anche anni prima della scadenza della pena.
Chi commette un reato, una volta scontata la pena, può tornare a condurre una vita del tutto normale?
Certamente, è proprio questo recupero alla socialità la finalità della detenzione.
C’è qualcosa che non va nei giovani di oggi, spesso li vediamo protagonisti dei fatti di cronaca nera…
Vorrei chiarire che non appartengo alla corrente che vede la nostra epoca come la peggiore tra i periodi storici trascorsi. Gli annali riportano da sempre casi raccapriccianti accaduti nei millenni, è ovvio che il villaggio globale della televisione e di internet ora ce li fa conoscere in tempo reale, sia che accadano in un abitato del profondo sud degli Stati Uniti, che in una città australiana, e ce li ripropone per mesi. In passato questa conoscenza non era possibile, ma non per questo non accadevano crimini e episodi di incredibile efferatezza. Basta scorrere i libri di storia.
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